Per orgoglio e petrolio: le isole Falkland/Malvinas scateneranno un nuovo conflitto?
A trent'anni esatti di distanza dal conflitto che vide protagoniste la Gran Bretagna della vergine di ferro Margaret Thatcher e l'Argentina post peronista delle stragi politiche, dei costanti cambi di guardia al potere e dei desaparecidos, la questione Falkland/Malvinas torna a riaccendere gli animi; ma questa volta le parti sembrano essersi invertite. A rappresentare i due contendenti ci sono, come allora, un uomo e una donna, ma stavolta la donna – Cristina Fernandez de Kirchner – è al timone del governo argentino, mentre l'uomo – David William Donald Cameron – guida l'impero britannico. Ma l'Argentina non è più debole, lacera e disorientata come nel 1982 e la Gran Bretagna non può certo contare sulla solidità economica degli anni thatcheriani. Inoltre, tutto il Sud America – come raramente era accaduto prima d'ora – va compattandosi nella lotta contro i "colonizzatori britannici" e l'anacronistica occupazione delle Isole Malvinas (nome argentino dell'arcipelago). Negli ultimi mesi, la presidente Cristina Fernandez de Kirchner è riuscita a sensibilizzare a tal punto i governi di Uruguay e Brasile da ottenere che chiudessero i loro porti alle navi britanniche in rotta verso le Falkland/Malvinas; ha incassato il sostegno pubblico dell'attore Sean Penn (che ha condannato il colonialismo britannico definendolo "ridicolo e arcaico") e si è appellata alle risoluzioni ONU per chiedere l'apertura di un tavolo in cui si discuta di sovranità nazionale e – soprattutto – di affari.
Il Regno Unito è stato perciò costretto ad affrontare il fatto che l'Argentina non consideri affatto chiusa la questione Malvinas e Cameron non ha più potuto ignorare le costanti richieste di confronto provenienti dal governo argentino. Pare, infatti, che la difesa britannica abbia deciso di fronteggiare la determinazione della Kirchner a fare "tutto il possibile salvo la guerra" per restituire le isole alla sua nazione inviando alle Falkland il principe William in uniforme da conquistatore e l'incrociatore Hms Dauntless (gigante marino della Royal del valore di un miliardo e mezzo di dollari, dotato di radar e missili antiaerei in grado di colpire a 400 chilometri, ovvero di coprire la distanza che separa le isole Malvinas dalle coste patagoniche argentine).
Le due mosse sono state interpretate dalla Kirchner come una sfrontata ed evidente provocazione e hanno suscitato reazioni sdegnate sia tra la popolazione argentina che in molte altre parti del mondo, Sud America in primis. Cameron, da parte sua, parla dell'invio dell'incrociatore come di un "normale rimpiazzo", accusa l'Argentina di avere mire colonialistiche sulle Falkland e afferma che fino a quando gli abitanti delle isole chiederanno di rimanere sotto la sovranità del Regno Unito non intende abbandonare l'arcipelago. La presidente argentina commenta le dichiarazioni del primo ministro britannico accusandolo di una "mediocrità che confina con la stupidità" e il clima si appesantisce ulteriormente. Ma davvero le isole Malvinas sono così importanti? Possibile che un piccolo arcipelago al largo della Patagonia sia ancora una volta – e a distanza di trent'anni – al centro degli interessi di tanti? Naturalmente, i problemi non sono affatto di natura sentimentale né sono tanto meno ascrivibili a vaghe "questioni di principio", si tratta – come sempre – di affari, e per la precisione del casus belli più frequente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: l'oro nero.
La presenza di ricchi giacimenti petroliferi nel sottosuolo delle Malvinas è, infatti, acclarata (parliamo di quattro pozzi attivi che, secondo le stime britanniche, potrebbero arrivare a produrre otto miliardi di barili, ovvero centoventi miliardi di euro nell'arco del prossimo ventennio). Se poi si considera che la pesca è florida, la posizione strategicamente rilevante sia dal punto di vista militare che commerciale e che il possesso delle isole potrebbe rivelarsi determinante per avanzare pretese sul territorio antartico, ecco che appare evidente come nessuno dei due stati sarà mai disposto a mollare la presa sull'arcipelago. Il Regno Unito ha dalla sua la popolazione (quasi tutti di origine britannica), l'Argentina la geografia e il popolo che – complice il martellamento mediatico – sta di nuovo infervorandosi intorno alla questione. Eppure, appare assai difficile che il tutto si risolva in un nuovo conflitto. La guerra, a differenza di quanto accadde trent'anni fa, al momento non farebbe gli interessi di nessuno: il Regno Unito ha un'economia troppo debole e l'attivo coinvolgimento in Afghanistan ne sta già provando le risorse; l'Argentina – dal canto suo – ha già subito un rallentamento della crescita per via della crisi globale e le sue alleanze con gli stati sudamericani (Brasile su tutti) sono tutt'altro che solide.
Le condizioni che diedero vita al conflitto del 1982, inoltre, non poggiavano esclusivamente su questioni economiche e quelle condizioni, oggi, non ci sono più. All'epoca la Thatcher aveva bisogno del conflitto per riconquistare i favori del popolo britannico e l'allora dittatore del governo argentino, Leopoldo Galtieri, necessitava di un successo plateale per dare stabilità a un regime in cui i capovolgimenti erano all'ordine del giorno, i consensi precipitavano e l'economia andava a rotoli. La guerra delle Falkland, con i suoi mille morti in quasi due mesi, riuscì a ridare lustro al thatcherismo e favorì le condizioni per la svolta democratica argentina, screditando la dittatura militare post-peroniana. Oggi, a differenza di allora, il Regno Unito vive una condizione di forte crisi economica e l'Argentina ha troppo da perdere. Appare dunque realistico che se la Kirchner continuerà a spingere sul fronte del boicottaggio e della pressione diplomatica, Cameron potrebbe essere costretto a prendere in considerazione l'ipotesi di negoziare.
In ogni caso è pur vero che se, da un lato, il Sud America delle economie emergenti è schierato al fianco dell'Argentina, gli Stati Uniti – che per il momento mantengono una posizione neutrale e auspicano un "sereno accordo tra le parti" – difficilmente volteranno le spalle all'alleato storico, valutazione tanto più realistica se si considerano almeno due fattori: innanzitutto la presidente Kirchner non è esattamente un'amica degli Stati Uniti e il suo elettorato è costituito da movimenti i cui sentimenti sono decisamente anti-statunitensi, inoltre c'è un'azienda texana tra quelle che si occupano di trivellare il sottosuolo dell'arcipelago oggetto della discordia che, se la sovranità delle isole dovesse passare di mano, potrebbe dire addio a diversi miliardi di dollari.
La diatriba è ufficialmente riaperta, la posta in gioco è evidente. Stavolta non ci sono solo sentimenti di unità nazionale e orgoglio in campo: ci sono miliardi di euro, denaro che potrebbe sanare entrambe le economie e nessuna delle due nazioni cederà il passo all'altra. In Argentina, ormai, non si parla d'altro che delle Falkland, il mondo sta lentamente ricominciando a puntare i riflettori su quell'angolo di mondo in cui il Regno Unito ha stabilito un presidio che, malgrado i secoli, somiglia tanto – troppo – a un insediamento post coloniale. Certo, la presenza sull'isola di un'altissima percentuale di popolazione che è e si considera britannica è oggettiva, ma è anche del tutto ovvio che, dopo quasi duecento anni di permanenza, le cose stiano in questi termini. D'altronde, al loro arrivo sull'isola (nel 1833) gli inglesi deportarono tutti gli argentini che la popolavano e dichiararono la loro sovranità sull'arcipelago. In che modo la popolazione potrebbe essere ostile al Regno Unito se è composta da britannici a tutti gli effetti? I sentimenti filo-britannici degli attuali abitanti sono un prodotto del colonialismo e non possono essere utilizzati per giustificarlo. Quali che siano le motivazioni addotte da Cameron, quindi, è piuttosto difficile contestare un semplice dato: le isole Malvinas si trovano a poco meno di 600 chilometri dalle coste argentine e a oltre 12.000 da quelle britanniche e – per tanto – quella che il Regno Unito continua a rivendicare ha tutta l'aria di una sovranità di matrice post coloniale, una sorta di "possesso per diritto divino". D'altro canto è pur vero che l'Argentina non ha interessi diversi da quelli britannici e i sentimenti nazionalisti richiamati dalla Kirchner hanno come unico scopo quello di accendere gli animi perché alimentino uno scontro che è squisitamente economico. In buona sostanza, visti i desideri in campo e la totale mancanza di interesse al conflitto, Cameron e Kirchner dovranno – presto o tardi – sedersi e negoziare.