Palestina, la lotta di Alice: “Io cristiana palestinese cacciata dai coloni israeliani non rinuncio alla mia terra”
Makhrour, inserita nel 2014 nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell'Unesco, è una delle ultime oasi verdi accessibili ai palestinesi nella Cisgiordania occupata. I suoi antichi terrazzamenti e gli uliveti secolari si estendono a ovest, sovrastando la città di Betlemme, e a est, dominando il panorama che si affaccia su Gerusalemme, separata dal checkpoint DCO, dove in questi giorni si formano interminabili file di veicoli a causa delle recenti restrizioni e chiusure israeliane, imposte a poche ore dal raggiungimento della tregua a Gaza. Il sito si estende su 11 chilometri quadrati, qui risiedono circa 25.000 palestinesi, e include i villaggi di Husan, Battir e Walaje, oltre alle città di Khader e Beit Jala.
Nei pressi di un grande cartello rosso che segna il confine tra l'area A e l'area C, incontriamo Alice Kisiya, residente palestinese cristiana della zona, che il 31 luglio 2024 ha visto il terreno della sua famiglia espropriato da un gruppo di coloni armati, sotto la protezione dell’esercito israeliano. Da allora, a pochi passi dalla sua proprietà, ha fondato la "Tenda della solidarietà", divenuta simbolo della resistenza contro la confisca delle terre palestinesi. «Per mesi ci siamo mobilitati, insieme ad attivisti palestinesi, israeliani e internazionali, che lottano al nostro fianco contro i soprusi dei coloni», ci racconta. «Avevamo anche un ristorante e una piscina, ma sono stati demoliti. E quando li abbiamo ricostruiti, sono tornati a buttare giù tutto».
Makhrour si trova nell’area C della Cisgiordania occupata, sotto il pieno controllo militare e civile israeliano. Da tempo, Tel Aviv utilizza le demolizioni delle infrastrutture palestinesi come mezzo per sfollare la popolazione e annettere gradualmente il territorio. Una continua appropriazione di terreni e abitazioni: sono 12.000 le strutture demolite in Cisgiordania dal 2009, con un nuovo picco raggiunto nel 2024 con 1.763 distruzioni, secondo i dati delle Nazioni Unite. «Le demolizioni vengono giustificate dalla mancanza di permessi per costruire, ma le autorità israeliane raramente ce li concedono. Paradossalmente, questa stessa restrizione non viene applicata ai coloni che vivono nelle valli circostanti», spiega Kisya. Nonostante i tentativi della famiglia di tornare nella propria terra, i soldati hanno imposto loro di mantenere una distanza e hanno dichiarato l’area «zona militare chiusa».
«Essendo una cittadina palestinese di Israele, quando ho chiamato la polizia israeliana per denunciare le violenze dei coloni, invece di intervenire contro di loro, hanno arrestato me. Anche gli attivisti ebrei israeliani stati picchiati e perseguiti legalmente. Questo dimostra che, indipendentemente da chi tu sia, il governo Netanyahu colpisce tutti senza distinzioni», continua Kisiya. La vicenda della sua famiglia ha visto il coinvolgimento anche del Fondo Nazionale Ebraico, creato nel 1901 con l’obiettivo di acquisire terre in Palestina. «Qualche anno fa, i documenti che attestavano la nostra proprietà sono stati dichiarati invalidi. Ci hanno detto che i nostri terreni ora fanno parte della terra dello Stato e di una zona verde e non edificabile».
L’area C della Cisgiordania è al centro di una vera e propria offensiva del piano di insediamento israeliano. Dal 7 ottobre 2023, il governo israeliano ha creato cinque nuove colonie, istituito 43 nuovi avamposti, legalizzandone altri 70, tra cui Neve Ori, nei pressi di Makhrour. A differenza degli insediamenti israeliani tradizionali, considerati illegali secondo il diritto internazionale ma non secondo la legge israeliana, gli avamposti sono considerati illegali anche dallo Stato di Israele. «L’intenzione del governo Netanyahu è quella di creare una sequenza di insediamenti che scolleghino i villaggi palestinesi dell’area di Makhrour da Betlemme, collegando al contempo gli insediamenti di Gush Etzion a Gerusalemme», ha dichiarato l’ong israeliana Peace Now, che si occupa di monitorare i territori occupati del 1967.
Alle porte di Betlemme, la ridefinizione dello spazio è costante: i nuovi posti di blocco, l’ampliamento della strada 60 a Beit Jala, così come i piani per espandere il vicino insediamento di Har Gilo, tracciano i contorni di quello che sarà il futuro. D’altronde, tra le aule della Knesset israeliana, di annessione della Cisgiordania si parla ormai apertamente. Il ministro della sicurezza nazionale uscente, Itamar Ben Gvir, dimessosi in protesta al recente accordo raggiunto tra Netanyahu e Hamas, e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, hanno fatto dell’annessione il cavallo di battaglia della loro agenda politica. Gli ammiratori del movimento razzista e suprematista kahanista, un’ideologia che Israele aveva messo al bando trent'anni fa, sono oggi nella maggioranza di governo.
Tra i palestinesi, il timore di un’annessione legalizzata della Cisgiordania è sempre più diffuso, e l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, potrebbe velocizzarne il processo. A pochi giorni dalla sua vittoria alle elezioni statunitensi, Smotrich ha scritto su X: «2025: l’anno della sovranità su Giudea e Samaria» (n.d.r. i nomi usati dalla destra israeliana per riferirsi alla Cisgiordania). E ha aggiunto: «Ho ordinato l’inizio di un lavoro professionale per preparare la necessaria infrastruttura (per l’annessione n.d.r)» perché «non ho dubbi che il presidente Trump sosterrà lo Stato di Israele in questa mossa». Dal canto suo, Trump, nel primo giorno del suo mandato ha revocato le sanzioni contro le violenze dei coloni imposte da Joe Biden nel febbraio 2024.
Il sole sta tramontando e, da una delle valli di Makhour, si intravedono le luci dei villaggi circostanti. Prima di salutarci, Kisiya lancia un ultimo sguardo alla sua terra, ora sbarrata da vecchi fili di ferro arrugginiti. «Non so cosa ci riserverà il futuro», dice, «ma andarsene non è un’opzione»