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“Ostaggio di Putin”: perché la condanna del giornalista Evan Gershkovich si fonda su una falsa accusa

Due persone spiegano a Fanpage.it perché la condanna del giornalista americano si fonda su una falsa accusa. “È solo un ostaggio di Putin, ora la sentenza rende possibile uno scambio”, dicono gli analisti. “In Russia ogni reporter occidentale rischia l’arresto”. Davidis di Memorial: “Il regime non si vergogna più di niente”.
A cura di Riccardo Amati
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L’impressione è che il caso sia stato discusso al Cremlino, più che in tribunale. E che la decisione sia stata di secretare il procedimento e concluderlo nel più breve tempo possibile. Con una condanna tale da dimostrare ai russi come la patria sia brava a difendersi dai nemici occidentali. Tale anche da poter contrattare, subito o con tutta la calma del mondo, uno scambio del nuovo ostaggio. Intanto si è dato ai giornalisti dei paesi “ostili” un messaggio: se siamo buoni e vi diamo il visto, poi non andatevene in giro per il Paese a cercare scoop sulla guerra sgradevoli per il regime. Potreste finire male.

Evan Gershkovich, 16 anni per un articolo

Evan Gershkovich stava facendo il suo lavoro: raccoglieva materiale per un articolo sull’incremento della capacità produttiva dell’industria militare russa. “Seguendo la dritta datagli da una sua fonte, era andato davanti a quella fabbrica per cercar di capire se davvero si lavorasse su tre turni”, dice a Fanpage.it una persona al corrente della vicenda. “Si trovava in macchina e prendeva appunti su quanti operai entravano e uscivano”. Nulla di illegale, quindi. Chiunque poteva stare là fuori a guardare. “Altro che spia, Evan cercava solo un buon ‘attacco’ per il pezzo da inviare al Wall Street Journal”. Il nostro interlocutore ha chiesto di rimanere anonimo per ragioni di sicurezza personale.

Un’altra persona —anche in questo caso e per ragioni analoghe omettiamo il nome — che per ragioni di lavoro aveva parlato a lungo con Gershkovich nei giorni immediatamente precedenti l’arresto, ha confermato a Fanpage.it che il corrispondente si stava dedicando “all’impatto della guerra sull’economia russa e preparava articoli in merito”. D’accordo con gli editor del suo giornale. “E non certo con la Cia”.

Secondo la tesi dell’accusa, accolta dal tribunale che ha condannato l’americano a 16 anni per spionaggio, Gershkovich è stato colto in flagrante mentre raccoglieva informazioni segrete sulla Uralvagonzavod, azienda che produce carri armati utilizzati per l’invasione dell’Ucraina, su ordine della Cia.

Il processo si è svolto a porte ermeticamente chiuse. Non si sa quali fossero gli elementi di prova, né se ci fossero testimoni.

L’ostaggio di Putin

Non vi è dubbio che Evan Gershkovich sia per Vladimir Putin merce di scambio. “Di sicuro lo considera un ostaggio pronto per essere scambiato”, dice a Fanpage.it l’accademico Mark Galeotti, direttore di Mayak Intelligence e “putinologo” di fama mondiale. “La legge russa non permette scambi di prigionieri prima della loro condanna”, ricorda l’esperto. “Questo può spiegare perché si sia trattato di un processo così rapido e segreto”.

“A Evan è stato negato il diritto a un processo pubblico, garantito dalla Costituzione e dal codice di procedura penale”, sottolinea Valeria Vetoshkina, avvocato di Old Info, organizzazione russa per i diritti umani che monitora le persecuzioni contro i dissidenti. Ma oggi in Russia nei processi con valenza politica — e non solo in quelli — raramente l’applicazione delle leggi prevale sulle decisioni prese dal potere esecutivo. Al quale i giudici sono tenuti a sottomettersi: “Con ogni probabilità il caso è stato controllato dall’alto”, afferma Vetoshkina, intervistata da Fanpage.it. “Evan è un ostaggio del Cremlino”.

Un giornalista per un sicario

La condanna, si diceva, almeno rende tecnicamente possibile uno scambio. Nell’intervista in ginocchio dell’ineffabile Tucker Carlson — l’ex star di Fox News appena “sceso in politica” a fianco di Trump — Putin aveva fatto capire chiaramente di esser pronto a scambiare Gershkovic con il sicario Vadim Krasikov, l’ex colonnello dell’Fsb condannato per l’esecuzione del ceceno Zelimkhan “Tornike” Khangoshvili nel 2019 in un parco nel centro di Berlino. Krasikov è in carcere in Germania, ma a Mosca si tende a semplificare e si ritiene che basterebbe una telefonata da Washington per una liberazione immediata dell’assassino.

Altro oggetto di desiderio, ci ha detto l’analista Tatiana Stanovaya — che ha buone fonti dalle parti della cittadella moscovita — è Vladislav Klyushin, imprenditore della cybersecurity vicino al Cremlino. In prigione negli Usa dopo una condanna per cospirazione, frode informatica e insider trading.

A Putin scambiare ostaggi stranieri piace. Gli ricorda i bei tempi dell’Urss e delle spie di una volta. Ed è in linea con la sua visione pragmatica, opportunista. Non è per niente schizzinoso: la liberazione di Brittney Griner, campionessa statunitense di basket arrestata in Russia per la detenzione di meno di un grammo di olio di hashish medicinale, nell’estate del 2022 ha assicurato il ritorno in patria da un carcere americano del famigerato mercante di armi Viktor But.

La “merce” in magazzino

Di pedine per questo gioco Putin ne ha parecchie. La più recente l’ha acquisita all’inizio del giugno scorso: nel giorno in cui la Francia ospitava, senza aver invitato la Russia, i leader mondiali per l’80° anniversario dello sbarco in Normandia, Mosca ha annunciato l’arresto del cittadino francese Laurent Vinatier, ricercatore di una Ong svizzera che si occupa di dialogo umanitario. Motivo: stava facendo il suo lavoro nella capitale su fonti pubbliche riguardanti “attività militari e tecnico-militari russe” ma non si era registrato nella lista degli “agenti stranieri”, come prevede la legge che ha costretto la maggior parte delle Ong a chiudere o lasciare il Paese.

Tra gli americani nelle carceri russe, oltre a Evan Gershkvich, ci sono, tra gli altri: l’ex marine Paul Whelen, arrestato nel 2018 a Mosca dove lavorava nel servizio di sicurezza di un’azienda statunitense del settore automobilistico, condannato a 16 anni per spionaggio. Proprio come Gershkovich. L’ex diplomatico Marc Fogel, arrestato nel 2021 all’aeroporto moscovita di Sheremetyevo con undici grammi di marijuana e otto grammi di olio di hashish, è stato condannato a 14 anni di carcere di massima sicurezza per acquisto, contrabbando e possesso di droga “su larga scala” (sic!). E c’è la russo-americana Also Kumasheva, giornalista di Radio Free Europe residente nella Repubblica Ceca e arrestata nell’ottobre scorso mentre era in visita all’anziana madre a Kazan. Le accuse: non essersi registrata come “agente straniero” e violazione delle leggi sulla censura approvate dopo l’invasione dell’Ucraina.

“Evan Gerskovich è un prigioniero politico”

“Evan Gerskovich è un prigioniero politico”, sostiene Sergei Davidis, avvocato e attivista per i diritti umani di Memorial, Ong ufficialmente chiusa dalle autorità russe e insignita del Nobel per la pace nel 2022. “Come quelli contro i dissidenti russi, i processi contro gli stranieri sono spesso inventati di sana pianta, soprattutto quando è l’Fsb a fare le indagini e fornire le prove per l’accusa: in questi casi tutto resta segreto. Si possono costruire prove o semplicemente ritenerle non necessarie”.

Non si tratta soltanto di immagazzinare ostaggi. “Sentenze come quella inflitta a Gershkovich servono anche ragioni di politica interna”, spiega Davidis a Fanpage.it. “Assecondano la narrativa secondo cui la Russia è assediata da nemici. Con l’Occidente che cerca di colpirla anche dall’interno. La propaganda è potente e rende credibili anche le accuse più surreali”.

Tutto diventa normale, nella Russia di Putin. “Non ci sono più limitazioni morali né restrizioni all’onnipotenza delle autorità”, nota Davidis. “Lo dimostra la guerra all’Ucraina. Qualsiasi cosa utile al Cremlino è diventata lecita. Non c’è più alcuna vergogna”. Da molti anni “la direzione era questa”,  prosegue l’avvocato di Memorial. “Ma oggi non esiste più alcun obbligo formale a cui la Russia debba ottemperare, dopo che è uscita dal Consiglio d’Europa e quindi dalla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo. E di far brutte figure di fronte al mondo al Cremlino se ne fregano”.

Siamo tutti Evan Gershkovich

L’atto di “raccogliere informazioni”, che è stato imputato al giornalista americano è ormai sufficiente per andare in galera, in Russia. Non c’è bisogno di mettersi a contare gli operai di una fabbrica di armamenti. Basta semplicemente registrare i pareri di esperti o far ricerche su internet. Somiglia parecchio a proibire il giornalismo. “Per le autorità, la condanna di Gershkovich deve servire come esempio per ogni giornalista occidentale in Russia che intenda investigare su cose riguardanti la guerra”, commenta a Fanpage.it Anton Barbashin, direttore editoriale del think tank  Riddle, specializzato sulla politica, l’economia e la società russe.

“In pratica, si sta dicendo ai pochi corrispondenti occidentali rimasti e agli inviati a cui viene (non sempre, ndr) concesso il visto, di restare nelle grandi città, di parlare con chi sia conveniente parlare e di non addentrarsi nel Paese profondo a caccia di vere notizie o per fare inchieste”, sostiene Barbashin. “Chiunque abbia a che fare col giornalismo, con la ricerca o con studi accademici deve essere conscio che oggi la Russia opera in questo modo. Si può in un attimo diventare un bersaglio”.

Ai tempi dell’Unione Sovietica, tutti i corrispondenti da Mosca dei giornali occidentali erano spiati e intercettati. E non solo loro. Ma alla fine potevano scrivere quel che volevano. Semmai si “autocensuravano” se simpatizzavano per il sistema comunista. Ma la censura vera valeva solo per i giornalisti russi o per quelli dei “Paesi fratelli”. Nella Russia di Putin, che di fatto il giornalismo lo vieta, ogni reporter che arriva da un Paese definito “ostile” è un potenziale Evan Gershkovich.

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Giornalista e broadcaster. Corrispondente da Mosca a mezzo servizio (L'Espresso, Lettera 43 e altri - prima di Fanpage). Quindici anni tra Londra e New York con Bloomberg News e Bloomberg Tv, che mi inviano a una serie infinita di G8, Consigli europei e Opec meeting, e mi fanno dirigere il servizio italiano. Da giovane studio la politica internazionale, poi mi occupo di mostri e della peggio nera per tivù e quotidiani locali toscani, mi auto-invio nella Bosnia in guerra e durante un periodo faccio un po' di tutto per l'Ansa di Firenze. Grande chitarrista jazz incompreso.
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