L’anniversario del massacro di Tien an men: il governo cinese pretende l’oblio
Il massacro di Piazza Tiananmen, ventitré anni dopo, è ancora foriero di giganteschi imbarazzi per il governo cinese; un eccidio-tabù di cui pochi parlano (specie in patria) e che è tacitamente vietato ricordare in pubblico. Si tratta di un massacro di cui, non a caso, esistono pochissime immagini, eccezion fatta per il celeberrimo scatto del giovane sconosciuto in camicia bianca che – a braccia spalancate, immobile – si para di fronte ai carri armati, e qualche immagine di corpi trucidati e crollati su biciclette ridotte a vaghi e indistricabili ammassi di ferraglia. Tutto qui. Le foto che avrebbero dovuto immortalare quel giorno sono così sfocate da sembrare quasi premonitrici della violenta opacità che, nei ventitré anni successivi, colpirà il ricordo di quell'evento. L'evento che, storiograficamente, avrebbe dovuto rappresentare una tessera fondamentale nel percorso di crollo dei regimi comunisti in giro per il mondo si è, invece, tradotto in un'insensata carneficina. A tutt'oggi, non esistono stime ufficiali capaci di dire quanti persero la vita nella giornata del 4 giugno 1989: il numero varia dai "200 civili e qualche dozzina di militare" denunciati dal governo cinese, ai 1000 di cui parla Amnesty, ai 2600 della Croce Rossa, ai 3000 dei testimoni stranieri. Qualcuno, addirittura, arriva a parlare di 12000 vittime.
Non sembra in alcun modo possibile arrivare a far piena e nitida luce sulla vicenda, tanto che ancora oggi madri senza più figli domandano Verità al governo di Pechino. Ma la domanda resta inevasa e – anzi – proprio oggi, nel giorno dell'anniversario, in Cina il regime approfitta dell'occasione non già per commemorare, ma per celebrare la repressione, riattivandola (sebbene con modalità diverse). Decine gli arresti tra i dissidenti e i manifestanti, decine i cinesi in fuga che tentano di evitare la carcerazione, forte più che mai la censura, specie sul web, unico luogo dove ancora è possibile trovare ristretti spazi di libertà e dove spariscono post, foto, commenti: tutto quanto abbia lo scopo di ricordare quel massacro e intenda chiedere giustizia. Stando all'analisi del South China Morning Post di Hong Kong sono state le stesse autorità locali a definire "da tempo di guerra" le misure adottate dal governo cinese. E la mente, inevitabilmente, torna ai mesi del 1989 in cui tutto cominciò confidando nella potenza della protesta di massa e finì nella costatazione che se il potere accetta di ammazzare la propria coscienza avallando l'eccidio, allora può arrivare a soffocare qualunque cosa, anche gli slanci più onesti. E oggi sembra quasi che Pechino abbia voglia di affermare – pur senza dirlo – che non è possibile dubitare della necessità delle scelte del Potere, non è possibile denunciare, non è possibile protestare, anche se – stavolta – il desiderio è semplicemente quello di ricordare la Storia, non di farla. Ma neanche questo appare plausibile. Quella incontestabile sequenza di accadimenti che ha portato alla morte migliaia di persone non deve e non può essere ricordata.
La Storia del Massacro
Tutto comincia il 15 aprile 1989, e comincia nel segno del lutto: muore il politico Hu Yaobang, mente illuminata e fautore di un deciso ammorbidimento del regime, era stato estromesso dal governo nel 1987 per aver commesso "l'errore" di avviare il processo per l'indipendenza del Tibet – poi stroncato – e per non aver mai nascosto la propria ostilità nei confronti di un regime nepotista che ha presto dimenticato tutti i valori in cui diceva di credere. In seguito alla morte di Yaobang, centinaia di persone scesero in piazza a manifestare cordoglio, ma presto la pena (anche a causa degli scontri con la polizia) si trasformò in protesta. Cominciarono così due lunghissimi mesi in cui studenti, insegnanti, operai – pur denigrati dalla stampa e dai media, pur considerati "nemici della rivoluzione" e accusati di lasciarsi manovrare da potenze straniere – diedero vita a moltissime manifestazioni, sfidando la repressione e chiedendo che i loro nomi non venissero infangati da accuse di "tradimento" e pretendendo il riconoscimento del diritto al dissenso, alla protesta. Ma il governo, pur spaccato in due (da un lato c'era chi desiderava dialogare con i dimostranti, dall'altro chi invocava la repressione quale unica soluzione) non si arrese neppure di fronte alla proclamazione di un massiccio sciopero della fame. Anzi, quando la protesta cominciò ad allargarsi moltiplicando i consensi, il governo di Pechino – per la prima volta nella storia della capitale cinese – promulgò la Legge Marziale.
Era il 19 maggio 1989. Per i successivi 12 giorni e fino al fatidico 4 giugno 1989 la situazione rimase in stallo. Zhao Ziyang, il principale oppositore della "linea dura", scese in piazza per dialogare con i manifestanti, promise loro che se avessero interrotto lo sciopero e liberato la piazza sarebbero stati ascoltati, ma i dimostranti si rifiutarono di prestargli ascolto. Pochi giorni dopo, Ziyang venne arrestato e, a quel punto, non c'era più nessun'alta sfera del governo a premere per la soluzione diplomatica. Dopo qualche tentennamento dovuto al desiderio di non fare martiri e non traumatizzare la popolazione, il massacro ebbe luogo. Fu cruente e insensato, ma nessuno conosce l'esatta dinamica degli avvenimenti. Quelli che erano presenti morirono, e il governo cinese ha fatto incetta di quanti più documenti possibile sull'argomento, lasciando in giro pochissime testimonianze dell'accaduto. L'auspicio era quello di riuscire a reprimere la protesta nel sangue e nel silenzio, uccidendo senza troppo rumore e provando a consegnare la vergogna di quel massacro all'oblio e all'indifferenza nel più breve tempo possibile.
Ma dopo ventitré anni, nulla di tutto questo è ancora accaduto e – nonostante le difficoltà – se esistono ancora persone pronte a rischiare la libertà e la vita pur di raccontare quel che accadde, pur di ricordare, pur di resistere, è lecito credere che il governo cinese non sarà mai capace di mondarsi da quella colpa. Il massacro di piazza Tien an men continuerà a perseguitarlo e ad arrossargli le guance per la vergogna. Finché, forse, sarà la forza di quella memoria a decretare la fine di un regime che di "comunista" non ha più nulla.