L’offensiva su Rafah e il ruolo dell’Egitto: cosa potrebbe succedere secondo il generale Capitini
A poco più di quattro mesi dall'inizio della guerra a Gaza, e dopo aver provocato oltre 28mila vittime, l'esercito israeliano si prepara a una nuova fase del conflitto attaccando Rafah, l'area a sud della Striscia dove nelle ultime settimane hanno trovato rifugio 1,4 milioni di civili palestinesi. Proprio lì, dove credevano di essere al riparo dai bombardamenti e dove per primi arrivano gli aiuti umanitari, l'aviazione dello Stato ebraico ha già condotto i primi raid uccidendo decine di persone e riuscendo a liberare due ostaggi.
Si tratta però solo di un "assaggio" di quello che potrebbe avvenire nei prossimi giorni, "un disastro umanitario annunciato", secondo il ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock. Un concetto analogo è stato espresso dal capo della diplomazia saudita, che ha chiesto anche una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu per evitare "un'imminente catastrofica crisi umanitaria". L'ONU ha definito "terrificante" l'ipotesi di un'operazione nell'estremo sud di Gaza, al confine con l'Egitto. Ma per quale motivo Israele vuole attaccare Rafah, zona della Striscia di Gaza stracolma di civili? E a quali rischi va incontro Netanyahu? Fanpage.it ha interpellato il generale Paolo Capitini.
Israele ha lanciato una serie di attacchi a Rafah, dove da settimane sono ammassati 1,4 milioni di palestinesi. Questa operazione da parte dell'IDF rischia di aggravare una situazione umanitaria già catastrofica, confermando anche le accuse di genocidio alla Corte Internazionale di Giustizia. Qual è, dunque, la strategia di Netanyahu?
Il senso dell'ultima operazione è stato dichiarato dallo stesso Netanyahu nel corso di questi quattro mesi, quando ha detto di voler eradicare Hamas per poi correggersi affermando di volerne distruggere solo l'apparato militare. Ora il leader israeliano è su quella strada: vuole annientare le capacità belliche di Hamas. Netanyahu sostiene, ma non abbiamo elementi di conferma, che siano rimasti operativi 2.000/2.500 combattenti palestinesi, ovvero circa quattro battaglioni. Non so se Israele riuscirà nel suo intento, ma so che non può fare altro visto che è stato quello il suo obiettivo strategico fin dall'inizio dell'operazione. C'è poi un altro scopo, molto meno dichiarato, cioè la sopravvivenza politica del governo israeliano: Netanyahu è costretto a soddisfare l'anima più guerrafondaia della sua coalizione, ed è per questo che sta usando la mano pesante contro i palestinesi. Sa bene che nel momento in cui dovesse accettare una lunga tregua o persino il rilascio di tutti gli ostaggi verrebbero meno le ragioni stesse per sostenere questo governo. Netanyahu sa perfettamente che non sopravviverà politicamente a questa storia e vuole ritardare la sua "dipartita" il più possibile. Peccato che sembri non rendersi conto delle conseguenze del suo atteggiamento.
Perché? Quali sono le conseguenze?
A Gaza nord e Gaza centro Israele ha potuto fare quello che voleva, più o meno indisturbato. Adesso Paesi come Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati Uniti potrebbero decidere di non tollerare oltre. C'è infatti una domanda alla quale nessuno a Tel Aviv al momento sa rispondere: dove li mettiamo i due milioni di palestinesi accalcati a Gaza sud?
Lei è d'accordo con chi sostiene che Israele sta conducendo un'operazione di pulizia etnica dei palestinesi a Gaza?
Non è quello che penso. Tuttavia ipotizziamo che effettivamente Israele voglia cacciare i palestinesi da Gaza. A meno di spedirli in orbita, da qualche parte devono pur andare quelle due milioni di persone. In Egitto non se ne parla, e non per "cattiveria". Quel Paese infatti è messo malissimo: deve gestire 9 milioni di profughi provenienti da altre guerre, attraversa una profondissima crisi economica, sta in piedi coi soldi dell'Arabia Saudita e del turismo, per di più la crisi del Mar Rosso sta mettendo in difficoltà i traffici nel Canale di Suez. Non si può chiedere al Cairo di prendersi 2 milioni di profughi palestinesi.
In questo quadro è possibile che l'Egitto intervenga militarmente per scoraggiare Israele dal proseguire gli attacchi sui palestinesi a Rafah?
Sarebbe una scelta disperata. Ma quando i leader di un Paese vengono messi alle strette possono ponderare male le loro decisioni. Una nazione come l'Egitto, con gravi problemi interni ma ovviamente ben determinata a rimanere "in piedi", potrebbe decidere di fare la voce grossa anche militarmente. Ciò potrebbe accadere se gli israeliani decidessero di spingere fisicamente i palestinesi verso il confine egiziano, oggi "protetto" da muri di cinta alti oltre dieci metri e da chilometri di filo spinato. Insomma, Israele sembra credere davvero di poter spostare milioni di persone da un posto all'altro con estrema facilità. Pensi: i palestinesi accalcati a Rafah hanno ricevuto un volantino con un QR Code: inquadrandolo, si può leggere una spiegazione per raggiungere Gaza nord. Naturalmente i profughi palestinesi non sanno cosa farsene di quelle indicazioni, sono assolutamente ridicole.
Hamas ha avvertito che un attacco di terra israeliano a Rafah "farebbe saltare" i negoziati per il rilascio dei restanti ostaggi del gruppo a Gaza. Ma la liberazione degli ostaggi sembra non sembra essere una priorità di Tel Aviv…
Gli ostaggi sono la cosa più importante per Netanyahu, che ha due argomenti "forti" da spendere con la sua opinione pubblica: il fatto che Israele sia stato barbaramente attaccato da Hamas il 7 ottobre, e la conseguente necessità di punire l'aggressione e liberare gli ostaggi nelle mani dei miliziani. Finché ci saranno ostaggi, il premier israeliano potrà continuare la guerra a Gaza e soprattutto restare al vertice del governo; se Hamas, con un colpo di teatro, liberasse tutti gli ostaggi improvvisamente per Netanyahu cesserebbe il pretesto per continuare a combattere.
Intanto si incrinano sempre più i rapporti tra Israele e gli alleati: gli USA e l'UE continuano a chiedere con sempre maggior frequenza la protezione dei civili palestinesi. Intanto un tribunale olandese ha ordinato lo stop all’invio di pezzi di ricambio per i caccia F35. Israele sta deteriorando il rapporto con i suoi alleati storici?
Nessuno si aspettava che Israele sarebbe rimasto così sordo alle indicazioni dei suoi alleati di lunga data: basti pensare che siamo arrivati alla settima missione di Blinken in Medio Oriente, e non siamo abituati al fatto che il Ministro degli Esteri degli USA venga sistematicamente ignorato, così come non è normale che le indicazioni di Biden a Netanyahu vengano continuamente eluse. E se Israele non ascolta gli americani, figuriamoci se può ascoltare gli altri Paesi del mondo che gli stanno chiedendo di fermarsi. Sarà difficile tornare a rapporti accettabili: le colpe di Netanyahu verranno pagate in futuro da tutti gli israeliani, anche dai molti che non sono affatto d'accordo con le modalità della guerra a Gaza. Di fatto, comunque, già adesso Israele ha visto congelare gli accordi di Abramo, è in pessimi rapporti con tutti i Paesi del Golfo e gli Stati Uniti, viene guardato con sospetto dall'Unione Europea. Insomma, Netanyahu sta accumulando errori su errori.
Dopo quattro mesi di guerra qual è il bilancio che può tracciare Israele? Ha senso continuare così?
Dal punto di vista politico è innegabile che 28mila morti siano un numero insostenibile per uno stato democratico. Dal punto di vista militare invece abbiamo fatto un'importante scoperta: Israele era pronto a combattere una guerra di superficie, in campo aperto e nei centri urbani. Quella a cui stiamo assistendo invece somiglia a una guerra sottomarina; unità di superficie, come carri armati e blindati, devono affrontare un nemico che vive sotto terra. E questa è la novità militare di questa guerra. Da esperto, questo è l'aspetto più stimolante: la necessità di imparare a combattere guerre per le quali non ci si era affatto preparati. Di fatto, comunque, dopo quattro mesi Hamas non è in rotta: è stata indebolita ma non distrutta. E questo è stato possibile perché ha scelto tempistiche e un terreno a lei congeniale, che sta mettendo in crisi uno dei più potenti eserciti del mondo.
E noi occidentali cosa dobbiamo imparare dalla crisi in Medio Oriente, dopo quella in Ucraina?
Che il concetto di "fine della storia" enunciato dal politologo Francis Fukuyama era un'illusione. Credevamo che sarebbe bastata qualche missione di pace qua e là a mantenere l'ordine mondiale, ma le crisi in Medio Oriente, quella in Ucraina, i colpi di stato in Africa sub-sahariana e soprattutto i rischi di una guerra tra USA e Cina nell'Indopacifico ci mostrano che il mondo si sta orientando verso un nuovo equilibrio. La storia, come un mastodonte, si è rimessa in moto. E l'errore peggiore che si possa fare è credere che quel mastodonte stia ancora dormendo.