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Obama VS Romney – Gli spettelettori premiano la prestazione del campione in carica

Obama si gode una sonora rivincita dopo la sconfitta al primo round del 3 ottobre. L’ultimo match si disputerà in mondovisione il 22/10, e poi non resterà che attendere il 6 novembre, giorno in cui gli spettelettori decideranno chi ha impacchettato meglio il Nulla.
A cura di Anna Coluccino
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obama romney secondo dibattito

Due sfidanti, un ring, poche (vaghe) regole di savoir faire, un arbitro e cinquantotto milioni di spettatori (circa un sesto della popolazione, secondo Reuters). Questa la cornice in cui si è tenuto il secondo faccia a faccia televisivo tra Romney e Obama. Durante il primo round – tenutosi all'Università di Denver, Colorado, lo scorso 3 ottobre –  Romney aveva convinto il 67% degli spettelettori della sua superiorità retorica riguardo tematiche legate alla politica interna e – in particolare – alle questioni economiche: sanità, lavoro, tasse, deficit. Sembrava proprio che, nonostante le numerose figuracce sia di livello politico che culturale, Romney avesse ancora qualche chance di vittoria su Obama. Come nei migliori incontri di pugilato – infatti – come nelle migliori partite e nei film più riusciti, occorre che la vittoria non sia mai cosa certa, fino alla fine. Anche perché, diciamolo chiaramente, se lo show elettorale non fosse teso, giocato sul filo di lana, pieno di colpi di scena e tensione, chi lo guarderebbe? Già così il livello di partecipazione al voto non è che sia proprio esemplare per una democrazia, figuriamoci cosa sarebbe senza un po' di effetti speciali e una spruzzata di polvere di stelle.

Il Dibattito – 2nd Round, New York

Ieri, dopo due settimane di bombardamento mediatico sul vantaggio di Romney su Obama, arriva l'ennesimo colpo di scena. Barack Obama si aggiudica il secondo faccia a faccia, tenutosi nella serata di ieri alla Hofstrad University di Hempstead, New York. Come? Pare che il passaggio decisivo – quello in cui l'attuale presidente ha conquistato molti più punti dello sfidante – sia stato l'assassinio in Libia dell'ambasciatore statunitense; assassinio che ha fatto seguito all'uscita del film blasfemo sull'Islam. Romney aveva accusato Obama di non aver sottolineato subito che si trattava di un attentato di matrice terroristica argomento che, del resto, rappresenta uno dei cavalli di battaglia preferiti dal repubblicano: attaccare Barack Obama sulla sua presunta mano leggera in fatto di sicurezza nazionale, mano che – nei fatti – si è mostrata tutt'altro che leggera. Stavolta, però, mister Obama aveva la risposta pronta. Il presidente ha domandato alla moderatrice del dibattito – Candy Crowley, della Cnn – di consultare la trascrizione del suo intervento il giorno dopo l'assassinio, il 12 settembre, e di confermare che aveva – fin da subito – definito l'attacco di natura terroristica; la giornalista ha confermato la versione del presidente e bam: montante destro vincente, Romney va a tappeto. Grande pathos, gli spettelettori dell'arena sono soddisfatti.

Ma non era meglio concentrarsi sul cuore della questione libica? Sulle ragioni della tragedia, sulle conseguenze, sulla sostanza del discorso "libertà di satira vs libertà di informazione"? No, era molto più importante sapere se Obama aveva associato – o meno – il termine "terroristico" a quanto accaduto… That's America!

Molti altri colpi sono voltati nel corso del dibattito: Obama ha attaccato Romney per la sua ricchezza, per il suo disprezzo nei confronto delle classi meno abbienti, per i suoi investimenti in Cina; Romney ha provato ad affondare il presidente su tasse e pensioni, sulle risorse energetiche, ma ha commesso sempre il medesimo errore strategico: credendo di incalzare Obama con "domande scomode", gli ha in realtà consentito di dire tutto ciò che voleva, di tenere un personale, libero comizio su ciascun argomento, di prodursi in slogan e battute di spirito privi di risposte concrete… And the winner is: Mr Obama!

Sciopero dei contenuti, trionfo delle forme – Un Commento

Mitt Romney sembra aver così dissipato il vantaggio recuperato nelle ultime settimane, ma – quando si parla di presidenziali statunitensi – non bisogna mai dimenticare che la vittoria è legata anche alla questione dei fondi raccolti e dei relativi appoggi economico-politici. Da questo punto di vista, Romney è una calamita acchiappa dollari e piace molto alle multinazionali, alle lobby, agli armaioli, alle organizzazioni religiose (sia ebraiche che cristiane). Nel solo mese di settembre, il candidato repubblicano ha raccolto 170 milioni di dollari e pare disponga ancora di 191 milioni – in totale – da giocarsi nelle ultime tre settimane di campagna elettorale. E Obama non è da meno. Dopo mesi vissuti alla rincorsa del candidato repubblicano – per quanto riguarda i fondi raccolti – attualmente il presidente viaggia su cifre paragonabili a quelle a disposizione di Romney: talvolta superiori, altre volte inferiori, ma in ogni caso si tratta di milioni e milioni di dollari, centinaia di milioni di dollari spesi in festoni, viaggi, spille, cartelli, abiti, macchinari, sedi fisiche dei comitati, esperti analisti, spin doctor e tutto quanto occorre a costruire il perfetto contenitore del nulla. Il tutto mentre, sul palco, si parla agli spettelettori della nuova, fantasmagorica ricetta capace risolvere i problemi economici del paese. Peccato che nessuno accenni agli ingredienti e siano tutti dediti alla descrizione della torta.

Un numero crescente di statunitensi comincia a non poterne più di tutto questo, altri – i cosiddetti ‘moderati' – continuano a mostrare scarsa attenzione e poca memoria e, esprimendo la loro atavica indecisione, finiscono per appiattire ancor di più il dibattito su posizioni di comodo, vuote, retoriche, mai chiare, mai esplicite, sempre vaghe e generiche. Ad esempio, molti spettelettori sembrano aver già rimosso che Mitt Romney ha mostrato di non conoscere le più ridicole leggi della fisica (è nota la sua difficoltà nel capire come mai le compagnie aeree non consentano ai viaggiatori di aprire i finestrini in volo), o le più basilari, necessarie forme redistribuzione della ricchezza (tutti dovrebbero aver stampato nella memoria il triste fuori-onda in cui arrivò a dichiarare: "C'è un 47% di gente che vota Obama e che dipende dal governo, credono di essere vittime, credono che il governo debba prendersi cura di loro, che abbiano diritto alla salute, al cibo, alla casa, a quello che voi volete. È gente che non paga tasse, non li raggiungeremo mai, non me ne preoccupo").

Gli spettelettori, insomma, mostrano di avere la memoria molto, molto corta, e anche una pessima capacità di andare oltre le propagande e analizzare i dati: dopo ben quattro anni alla presidenza,  il 25% degli statunitensi crede ancora che Barack Obama sia di religione mussulmana; la maggior parte degli abitanti degli Stati Uniti crede che l'attuale presidente abbia legalizzato o lasciato entrare un numero di stranieri enorme rispetto al passato, mentre le espulsioni – durante il suo mandato – sono raddoppiate rispetto a quelle operate dall'ultima presidenza Bush; gran parte della popolazione è convinta che Obama voglia attaccare il secondo emendamento – ovvero quello che garantisce il diritto dei cittadini di possedere armi – quando, nel corso della sua presidenza, Barack Obama non ha compiuto neppure mezzo passo in questo senso e – al di là delle dichiarazioni proforma all'indomani delle stragi – ha sempre affermato che appoggia e rispetta la tradizione di possedere armi che vige negli Stati Uniti. Gli esempi potrebbero andare avanti all'infinito, ma il punto – ormai – dovrebbe esser chiaro.

Disinformazione e memoria corta rendono gli spettelettori statunitensi molto poco consapevoli dei reali intenti dei candidati e delle dinamiche che soggiacciono la campagna elettorale. L'ignoranza relativa alle azioni messe in campo dai vari politici nel corso della loro carriera politica, poi, rende i cittadini decisamente plasmabili. Il voto viene determinato – sempre più – dalla capacità di attaccare retoricamente ed emotivamente l'avversario, da qualche buon coup de théâtre studiato per far effetto, dalla presenza scenica, dall'aggressività, dalla capacità di sostituire efficaci slogan elettorali a fatti e numeri, dalle abilità performative e recitative dei candidati. Ma il problema non è la forma in sé e per sé, una buona forma è indispensabile perché i contenuti arrivino a destinazione forti e chiari; ma dovrebbe essere la sostanza a definire le forme, non viceversa. Naturalmente non si tratta di un atteggiamento generalizzabile, anche perché – è bene sottolinearlo – il livello di astensionismo negli Stati Uniti arriva a superare il 50% e, quindi, la porzione di popolazione interessata da e alle elezioni non è poi così consistente. Se poi si considera il gigantesco numero di stranieri-non-votanti, è facile concludere che solo una minoranza della popolazione partecipa alla democratica elezione del presidente USA.  Nelle tornate elettorali di medio-termine del 2006, ad esempio, solo il 35% degli aventi diritto espresse la propria preferenza, e nelle elezioni presidenziali del 2008 (tra le più partecipate della storia statunitense) solo il 64% si recò alle urne, un dato che non fa certo onore al paese che ama definirsi la più grande democrazia occidentale.

Questi dati appaiono altamente indicativi di come alcuni statunitensi ritengano le elezioni poco più che una beffa, un modo per simulare la democrazia lasciando alla popolazione solo la scelta tra avere una maggiore estensione dei diritti civili e un seppur vago interessamento agli "ultimi" (votando i democratici) o  una maggior attenzione ai temi della sicurezza e del libero mercato (votando i repubblicani), senza avere alcuna reale possibilità di esprimere la propria preferenza per qualcuno la cui politica economica sia realmente indipendente e al solo servizio dei cittadini. Questa è una delle ragioni dell'astensionismo che, nella competizione di novembre, rischia di aumentare ancora, rendendo il termine "democrazia" sempre più vuoto di senso. Ma pare che finché si riesce a impacchettar tutto come si deve, i contenuti non siano poi così importanti per definire chi vince e chi perde.

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