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Nucleare iraniano: dal ghigno al sorriso

Lo storico accordo di Ginevra è un primo passo per una stabilizzazione economica dell’area mediorientale dagli ampi risvolti geopolitici. Le speranze della comunità internazionale, il solitario dissenso di Israele.
A cura di Enrico Campofreda
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Né Asse del Male né Grande Satana, almeno per sei mesi. I presupposti ideologici, geopolitici con gravissime ricadute economiche (soprattutto per il popolo iraniano) si fermano per questo lasso di tempo, necessario a verificare se l’accordo firmato stanotte a Ginevra fra i tre grandi del mondo (Stati Uniti, Russia, Cina) più le tre maggiori nazioni europee (Gran Bretagna, Francia, Germania) con l’Iran potrà reggere in un prossimo futuro. Il passo è breve ma ha un significato storico per gli attori, un tempo contendenti e oggi dialoganti, rimasti ostili per decenni. E’ sicuramente il nuovo corso iraniano del presidente Rohani a mostrare il volto più disponibile, grazie al credito interno ricevuto col successo alle presidenziali di giugno. Convogliando su di sé i voti giovanili altrimenti rivolti all’astensione, e riuscendo a spostare gli orientamenti della Guida Suprema verso ipotesi riformiste, in barba all’asprezza fondamentalista dell’uscente capo di stato Ahmadinejad e del potente partito combattente che ne sostiene gli epigoni. L’odierno risultato della coppia Rohani-Zarif acquista maggior valore perché non solo il decennio del dopoguerra iracheno, quello del conflitto contro le pretese espansioniste di Saddam durato dal 1980 all’88 ma la rinnovata aggressività statunitense in Medio Oriente con l’Enduring e Iraqi Freedom, avevano rafforzato la reazione combattentistica dei pasdaran e dei loro supporter, laici e clericali.

Le crescenti e dure sanzioni occidentali facevano il resto, rinfocolando sì il malcontento popolare per le carenze di merci e i salari rimasti bassissimi, ma stimolando l’orgoglio nazionale, elevatissimo fra gli iraniani, contro l’ipotesi di aggressione militare al Paese. Idea che Israele, e i suoi supporter presenti in casa Neocon e in quella Demo, non hanno mai riposto, che viene però bollata quale pura follia da esperti di strategia militare e da molti politologi. L’Iran è troppo popoloso e dotato di raffinate risorse umane sul fronte tecnico-scientifico per ritrovarselo come avversario, le ricadute su un’area già infiammata risulterebbero devastanti per gli stessi aggressori. Comunque la partita delle velleità nucleari iraniane non è per nulla in discesa. L’Occidente non vuole concedere né le regalìe fatte ad altre realtà mediorientali e dotate da tempo dell’arma atomica (Israele e Pakistan), né vuole concedere quello che altre nazioni (Argentina, Brasile, Giappone, Germania, Sudafrica) hanno ottenuto: l’uso dell’arricchimento nucleare per solo uso civile. La Repubblica Islamica, per ora, non ha gli abitanti di qualcuna di queste nazioni ma la sua espansione demografica già la conduce alla necessità di diversificare la produzione energetica, sebbene goda di riserve petrolifere e di gas metano fra le maggiori del mondo. L’intento, anche durante l’amministrazione del presidente basij, cementava l’intera popolazione, perché gli iraniani, assieme ai propri politici d’ogni tendenza, pensano che il diritto alla tecnologia nucleare sia un diritto inalienabile.

Come in ogni trattativa ciascuna delle parti ha guadagnato e ceduto qualcosa. Da un punto di vista tecnico lo stop all’arricchimento superiore al 5% dell’uranio, il blocco della centrale di acqua pesante di Arak, il fermo all’istallazione e all’avvìo di centrali di nuova generazione sono risultati tangibili dei 5+1. Mentre la diplomazia di Teheran, sbloccando gli oltre 4 miliardi di dollari congelati per quasi un triennio nelle banche asiatiche, potrà far giungere alle famiglie iraniane certa merce che scarseggiava addirittura sul versante alimentare. Politicamente tutti possono vantarsi. D’aver rotto l’incomunicabilità d’una diplomazia delle parti contendenti incistata da decenni di contrapposizioni. Di poter mostrare un pragmatismo costruttivo che va ben oltre le buone intenzioni, cosa che vale per l’establishment di Teheran e Washington e per lo stesso ruolo giocato da altri colossi mondiali. Innanzitutto la Russia, già capace di far rientrare un’azione di guerra Nato quasi decisa contro Assad, e parte attiva nell’apertura verso il nuovo corso dirigente degli ayatollah. E la Cina medesima, che nella gara alla supremazia economica mondiale avallando le sanzioni occidentali poteva garantirsi e restare la grande acquirente degli idrocarburi iraniani, conservando per sé quote favorevoli di approvvigionamento energetico. Prevale, dunque, la buona volontà. Per sei mesi.

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