“Non sappiamo dove rifugiarci, siamo disperati e non ci fidiamo di Israele”: la testimonianza da Rafah
"Evacuate con urgenza i quartieri orientali di Rafah" si legge nei volantini caduti lunedì mattina dal cielo terso di Gaza sulle teste di 1,5 milioni di sfollati palestinesi. La stessa richiesta è arrivata attraverso la radio militare israeliana, attraverso telefonate e messaggi sui telefonini. Messaggi che queste stesse persone avevano già letto lo scorso 13 ottobre, quando l’esercito israeliano aveva ordinato a chi viveva nel nord e nel centro della Striscia di evacuare immediatamente le proprie case e dirigersi a Rafah, allora unica zona sicura.
Oggi, contro il parere degli alleati occidentali, contro la volontà delle famiglie degli ostaggi e con il rischio di una catastrofe umanitaria senza precedenti, anche Rafah non è più un posto sicuro. Mentre la possibilità di un accordo tra Israele e Hamas sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi si disintegrava al Cairo – per poi riaprirsi nel pomeriggio di ieri – l’IDF dichiarava che “continuerà a operare per realizzare gli obiettivi di guerra, tra cui lo smantellamento di Hamas e il ritorno di tutti gli ostaggi e che agirà con ‘forza estrema’ nelle aree evacuate”.
A nessuno è chiaro però dove debbano andare le attuali centomila persone che l’esercito di Tel Aviv stima siano accampate nella parte est di Rafah.
“La situazione a Rafah è gravissima, soprattutto da quando hanno lanciato questi volantini chiedendo alla popolazione che sta a est di andare via”, racconta Sami, cooperante di ACS anche lui sfollato a Rafah. “Nella parte est della città si trovano circa centomila persone, adesso sono costrette ad andare verso ovest, ma ad ovest non c’è spazio, la città è già piena di sfollati provenienti da Gaza City, dal nord della striscia, da Khan Yunis. La gente è impazzita non sa dove rifugiarsi”, continua.
Il governatorato di Rafah già prima della guerra era una delle zone più densamente popolate della Striscia di Gaza (a sua volta una delle zone più densamente popolate al mondo), con 275 mila persone su 65 chilometri quadrati. Oggi la popolazione di Rafah è quintuplicata. Gli sfollati palestinesi sono qui intrappolati tra l’Egitto, Israele, il mar Mediterraneo e il resto della striscia raso al suolo.
“Non sappiamo che fare, siamo tutti confusi”, continua Sami, “qui a Rafah c’è un traffico enorme la gente va e viene disperata, non sa dove andare. Siamo disperati”.
Intanto anche i prezzi dei pochi beni di prima necessità che riescono ad entrare nella Striscia sono saliti alle stelle. “Nella speranza di una possibile tregua negli scorsi giorni i prezzi erano diminuiti, ieri un pacco di farina costava 10 shekel (pari a 2 euro e 50), dopo stamattina ne costa 100. Così anche il gasolio che ieri stava a 20 shekel, oggi è arrivato a 50”, spiega Sami.
Secondo alcuni analisti l'annuncio di un’imminente offensiva a Rafah serviva a Netanyahu per fare pressione su Hamas, che poche ore fa ha accettato un nuovo documento stilato dal Cairo per un negoziato che preveda un cessate il fuoco temporaneo. Una scelta che potrebbe scongiurare un attacco su vasta scala, se condiviso anche da Tel Aviv.
Ma questa ipotesi non solleva 1,5 milioni di rifugiati palestinesi, di cui 610.000 bambini, sopravvissuti a sette mesi di massacro, che hanno già visto le proprie case distrutte, i propri amati trucidati, e le proprie città trasformate in rovine, dal terrore di rivivere tutto ciò.
“Hamas ha accettato la proposta egiziana, ma la stessa non è ancora stata accettata da Israele e anche se dovesse accettare sappiamo che finita la tregua entreranno a Rafah. La gente non ha fiducia, siamo tutti in ansia, da stamattina (lunedì, ndr) abbiamo cominciato a preparare le valigie per evacuare, adesso ci dicono che forse possiamo restare. Nel frattempo le bombe non si fermano, il cielo è coperto da droni e cacciabombardieri. Qui c’è ancora la guerra”, conclude Sami.