Nel mondo ci sono 433 centrali nucleari, ma si punta ad arrivare a mille
Il disastro di Fukushima è ancora vivo nella mente, non certo solo in Giappone. Quello che è stato il peggior incidente nucleare dai tempi di Chernobyl ha messo i grandi della terra di fronte a delle importantissime domande sui benefici e gli svantaggi dell'energia generata dall'atomo. La paura che quanto accaduto in quel giorno di marzo dello scorso anno nel Paese del Sol Levante possa ripetersi in altre zone del pianeta, deve fare i conti sulla imprescindibilità del nucleare. Almeno a guardare i numeri forniti da Barbara Thomas Judge, presidente emerito dell'Atomic energy autority del Regno Unito, ai Seminari internazionali sulle emergenze planetarie in corso a Erice (Trapani): nel mondo sono in attività 433 centrali nucleari, ma il numero è destinato a raddoppiare se si considerano le 69 già in costruzione, le 16 pianificate e le 329 proposte per la realizzazione. Dati che permettono di capire che la paura per i fatti di Fukushima non hanno scosso più di tanto il mondo, sempre più indirizzato sulla strada del nucleare.
Il maggior numero di centrali è negli Usa (104 impianti), seguono Francia (58), Giappone (50), Russia (33), Corea del Sud (23) e India (20). Ma il paese più attivo di tutti è sicuramente la Cina. Oggi Pechino conta 16 centrali attive, 26 in costruzione, 51 già pianificate e 120 proposte (per concludere il piano entro il 2020), per un totale di 197 in arrivo. Cinesi avventati? Non proprio. «In Cina le regole sono più stringenti rispetto a quelle che ha oggi il Giappone perché i cinesi si son fatti forti delle esperienze e delle norme degli altri Paesi», è il commento del professor Lowell Wood (di Stanford), che fa capire come l'atomo in Cina sia più sicuro di altre aree del mondo (per quanto, il concetto di "sicurezza" quando si parla di nucleare va sempre utilizzato con le molle).
A proposito di impianti sicuri, è il presidente dei Seminari, Antonino Zichichi, a sottolineare che il vero problema è che «l’80% delle centrali nucleari in costruzione sono concentrate nel Terzo mondo, dove i livelli di sicurezza non sempre sono ottimali». Zichichi è dell'idea che sia necessaria un'autorità competente internazionale a dettare le regole.
Fukushima non è passata inosservata, ma anzi ha acuito la sensibilità dei Paesi verso il rischio atomico. «Prima di quell'incidente nessun cinese metteva in discussione l'energia nucleare – ha detto Sun Yuliang, dell'Università Tsinghua di Pechino –. Poi, c'è stato qualche dibattito ma è prevedibile che la Cina continui nel suo piano nucleare rafforzando le misure di sicurezza, specie contro gli eventi naturali catastrofici, anche se è improbabile che in Cina si verifichino catastrofi simili a quella del marzo 2011». Del resto, nello stesso Giappone la riaccensione dei reattori spenti per il dopo Fukushima è avvenuto lo scorso giugno, soli 40 giorni dal provvisorio addio al nucleare. Troppo grande era il timore di andare incontro ad un rischio blackout dovuto alla carenza di energia elettrica nel periodo estivo in cui i consumi aumentano per l'utilizzo di condizionatori.
La questione che spinge ad affidarsi all'atomo è sopratutto economica. L'americano Carmine Di Figlio ha stimato che «il nucleare potrebbe in futuro costare 5 centesimi a kwh di meno del gas naturale». L'altro scienziato americano presente in Sicilia, Robert Budnitz, ha poi messo sottolineato che lo smantellamento delle vecchie centrali è questione «utopica, o utopica almeno negli Stati Uniti, dove l'impianto più giovane risale al 197. E tuttavia: proprio per questo si tratta di strutture i cui costi sono stati completamente ammortizzati e che fruttano uno straordinario flusso di profitti».