Moria. Stampatevele nella testa, queste cinque lettere. Perché è lì che stanno morendo l’Unione Europea e la civiltà occidentale. Ed è lì che si sta allevando una generazione che ci odierà con tutta la forza che ha in corpo, per quel che le stiamo facendo subire.
Vale la pena di raccontarla tutta, per quel che si può, la storia di Moria. Cinque lettere di campo profughi, su un’isola di cinque lettere, Lesbo, tra la Grecia e la Turchia. È lì che l’Unione Europa ha deciso di stipare i migranti che nonostante gli accordi del 2015 col presidente turco Erdogan – tre miliardi all’anno per tenersi in migranti in fuga dall’inferno della Siria – partivano comunque alla volta dell’Europa. Da lì, dicevano i nostri governanti pieni di buone intenzioni, chi fosse arrivato sarebbe stato ricollocato in tutto il continente, indipendentemente dal Paese di sbarco.
Promesse già sentite anche dalle nostre parti. Promesse dimenticate, allo stesso modo. La rotta migratoria che parte da est continua a essere la più trafficata d’Europa, i barchini continuano ad arrivare a Lesbo, e il campo profughi di Moria si riempie sempre di più fino a raggiungere e superare le 10mila presenze. Più di un decimo di tutta la popolazione dell’isola, nel giro di pochi anni. Le baracche e le tendopoli si sovrappongono l’una sull’altra. E la zona per i minori non accompagnati, che in teoria dovrebbe ospitare al massimo 160 bambini o ragazzini, arriva a contenerne più di 600. Molti muoiono, spesso per mano di altri ragazzini come loro, che assorbono violenza e la riversano verso i propri simili. Nel frattempo, siamo nel 2019, l’Unicef avvisa che la situazione è a un passo dal collasso, che “tutti, rifugiati e migranti, devono essere trasferiti nella terraferma e gli Stati membri dell'UE devono aumentare gli impegni per il trasferimento dei minori”. Niente. Sono mesi di elezioni europee e l’Europa dorme, o fa finta di dormire.
Poi arrivano pure le elezioni in Grecia, e a vincere, come da manuale, è la destra di Nea Demokratia che aveva portato il Paese allo sfascio e che si è rifatta una verginità promettendo porti chiusi e pugno di ferro contro i migranti. Per l’Europa Moria è un problema greco. Per la Grecia, Moria è un problema europeo. Nei fatti non è un problema di nessuno, se non di chi vive a Lesbo, greco o migrante che sia, alla faccia dell’Europa unita e della globalizzazione.
Non sappiamo se sia stata una banda di greci o di migranti ad appiccare il fuoco che ha raso al suolo il campo profughi qualche giorno fa e lasciato senza niente – tende, baracche, nulla – 12.700 persone, tra cui un migliaio di minori, che ora dormono, letteralmente, sulle tombe del locale cimitero. Non lo sappiamo e alla fine importa poco. Perché chiunque sia stato ha l’attenuante dell’esasperazione, dopo i primi tamponi positivi al Coronavirus effettuati sull’Isola, che preludevano a un ulteriore restringimento della libertà dei migranti. E a un prolungamento della loro detenzione. Chiunque sia stato, in cuor suo, spera giustamente che nessuno si sogni di ricostruirlo, quel monumento alla vergogna. E che finalmente quelle decine di migliaia di anime – lo 0,0002% della popolazione europea, circa – sia accolto dal resto del Vecchio Continente.
Conosciamo anche questi improvvisi afflati di solidarietà. Francia e Germania che si dicono pronte ad accogliere, l’Italia che per bocca del suo presidente del consiglio urla “mai più”, e si dice disposta a fare la sua parte. Quanto durerà? Non sappiamo nemmeno questo, ma nel frattempo l'Austria ha già annunciato che non accoglierà gli sfollati, per bocca del suo cancelliere Sebastian Kurz. E sull'isola sono arrivati altri tamponi per il Coronavirus, perché l’emergenza umanitaria possa davvero diventare anche emergenza sanitaria. E per dimenticare lì, ancora per un po’, i disperati di Moria.