Palestina, nel campo profughi di Dheisheh, dove ogni giorno si lotta per la vita: “Qui situazione disastrosa”
La vita inizia dopo le 18 nel campo profughi di Dheisheh, a Betlemme, c’è chi vende semenza in mezzo alla strada, i bambini giocano fuori dall’uscio di casa, le luci, la musica, tutto ricomincia dopo l’Iftar.
Nella via principale, una cucina popolare prepara pasti caldi per le famiglie più povere del campo. “Qui cuciniamo grazie ai pacchi di cibo che ci riforniscono dall’Italia, questi sono quelli che restano degli ultimi 75 arrivati, in totale dall’inizio della guerra ne sono arrivati 225”, spiega Mohammed, volontario del campo, indicando gli scatoloni con su scritto "From people to the people – italian friends" e lo stemma di ACS (Associazione di Cooperazione e Solidarietà). Qui lavora anche la Ong Ya Basta! Êdî bese!.
Dall’inizio della guerra la maggior parte delle famiglie del campo ha perso il lavoro. "Qui a Deisha il 70% dei palestinesi lavorava in Israele, la nostra è un’economia basata sui rapporti con gli israeliani. Non ci hanno lasciato altra scelta”, racconta Luay Al Haj, coordinatore dell’associazione Karama, che da anni coopera con l'estero.
Nel campo ben 1000 operai lavoravano ogni giorno in Israele, ovvero 1000 famiglie su 5000 vivevano grazie a quel lavoro. In tutta la Cisgiordania erano 150.000 i lavoratori palestinesi che prima di ottobre lavoravano in Israele. A questo si somma il fatto che l’autorità palestinese da mesi paga solo il 60% dello stipendio ai dipendenti pubblici e che, da quando Stati Uniti, Canada, Australia, Italia, Regno Unito, Finlandia, Paesi Bassi, Germania, Giappone e Austria hanno sospeso i fondi all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi (UNRWA), anche chi lavorava lì non ha più uno stipendio e gran parte delle strutture UNRWA sono state chiuse.
Questo significa che anche l’accesso alle scuole, agli ospedali è diventato molto dispendioso, le cliniche private qui costano tantissimo. Tutto questo ha causato un effetto domino: ad aver perso il lavoro non sono solo i palestinesi che lavoravano in Israele ma anche i tassisti che ogni giorno li accompagnavano al di là del check point e gli operai palestinesi che lavoravano per altri palestinesi che a loro volta lavoravano in Israele.
“Il problema è che qui prima del 7 ottobre ricevevamo migliaia di fondi da tutto il mondo, solo dall’Inghilterra ci arrivavano 55 milioni l’anno, ora poco meno del 20%. Adesso cooperiamo principalmente e quasi esclusivamente con l’Italia e ACS, oltre che con le organizzazioni locali”, continua Luay Al Haj. “Io non ho mai visto una situazione del genere, la situazione economica del campo è disastrosa, noi aiutiamo circa 400 famiglie, 17mila persone in totale, servendo pasti caldi tutti i giorni. Ma i fondi non bastano. In più spesso dall’Italia bloccano il cash assistent, quindi diventa ancora più difficile per noi ricevere il denaro con cui comprare il cibo per le persone”.
Oltre ciò, a causa dei sempre più numerosi e nuovi checkpoint israeliani sorti dopo il 7 ottobre, è più difficile far arrivare rifornimenti di cibo da città come Ramallah o Nablus a Betlemme, e spesso restano bloccati per ore sotto il sole rovinandosi. Questo non ha fatto altro che far aumentare vertiginosamente i prezzi dei beni primari. Con le stessa somma di denaro adesso si compra la metà della verdura che si poteva comprare prima della guerra.
Con i fondi della cooperazione i volontari del campo profughi di Dheisheh non comprano solo cibo, stanno anche ricostruendo case distrutte dall’esercito israeliano. “Un anno fa l’esercito ha fatto scoppiare la nostra porta di casa, è entrato e ha distrutto tutto per semplice divertimento”, racconta Raafat di fronte a ciò che resta della porta d'ingresso di casa sua. Vive lì con la moglie e tre bambini, nessuno in famiglia lavora e se non fosse per i volontari del campo e i soldi della cooperazione non avrebbero di come e dove vivere. Accanto c’è la casa del fratello Mohammed, ha 45 anni e anche casa sua è stata distrutta dall’esplosione.
Per strada Haled cammina stanco, “avevo sei figlie, l’esercito israeliano un anno e mezzo fa me ne ha uccise due, Issa di 12 anni e Ahmad di 15, ora siamo solo io mia moglie e le altre quattro figlie. Non ho lavoro, non abbiamo niente”. Anche lui è supportato dai soldi della cooperazione.
Intanto nel campo cala la notte, qualcuno è ancora in giro, altri si rintanano in casa. Qui la notte è pericoloso stare fuori, l’esercito di Tel Aviv fa incursione quasi ogni notte e anche stanotte è una di quelle. Due esplosioni verso le 5 del mattino, poi gli spari. All’alba è di nuovo tutto normale, qualcuno è stato arrestato, qualcun altro ferito, ma la vita deve ricominciare.
“La Palestina è come una malattia, non puoi viverci ma non puoi vivere neanche lontano”, conclude Luay Al Haj sorseggiando un caffè. Nella Cisgiordania occupata inizia come sempre un altro giorno di lotta per la vita.