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Mubarak, il sorriso che beffa la Primavera

La scarcerazione del deposto raìs suggella il ritorno al passato attraverso nuovi uomini che rilanciano inossidabili poteri forti: militari, magistrati, politici locali asserviti a capitali occidentali e arabi. A danno di lavoratori e ceti poveri.
A cura di Enrico Campofreda
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Nei cento rivoli in cui si divide l’interpretazione degli ultimi 55 giorni dell’intreccio politico egiziano: seconda rivoluzione, golpe bianco, non golpe, sanguinaria restaurazione, salvezza della Patria e altro ancora la notizia della scarcerazione di Hosni Mubarak ha fatto meno clamore di quello che ci s’attendeva. Quasi fosse un passo scontato visto l’orizzonte degli eventi. La questione è ampiamente simbolica, come e più di tanti momenti susseguitisi nei due anni e mezzo di Primavera cercata e sperata, tradita e perduta. E il sorriso appena accennato ma non per questo meno beffardo, più da Monna Lisa che da Sfinge, con cui il vecchio raìs ha assistito alle ultime carte giocate dai suoi legali profumatamente pagati riassumono un copione mai scarno di colpi di scena. Quattordici mesi or sono Mubarak doveva finire sulla forca, secondo il dispositivo d’una sentenza che duettava col bilioso volere della piazza che durante il duplice processo (strage e corruzione) circondò per settimane l’area del Tribunale allestita in una delle tante caserme cairote. Il vecchio Hosni venne addirittura dato per morto, non moribondo come dichiaravano avvocati e familiari, ma colpito da collasso. I detrattori sostenevano si trattasse d’una sceneggiata volta a commuovere la Corte che sull’onda rivoluzionaria non si fece impietosire, pur mutando la pena in ergastolo.

La “malattia” condusse il condannato dalla cella all’infermeria dove, con l’ampia schiera dei fedelissimi, ha atteso il crescente vento antislamico che introduceva un cambio di prigionia: fuori il vecchio tiranno dentro il nuovo, cioè Mursi presidente per dodici mesi odiatissimo dagli avversari laici. Se dietro ai simboli c’è sostanza, e qui ce n’è a iosa, la mossa sostenuta dai due poteri forti (Forze Armate e Magistratura) che formano il nuovo blocco egemonico assieme alla tumultuosa piazza anti Fratellanza ha voluto collegare la trascorsa e attuale dirigenza militare filo-yankee, checché ne dica chi ritiene Al-Sisi ammiratore di nuovi Imperi. Certo il generalissimo – lui vero presidente in pectore d’un Egitto normalizzato non ‘giocatori di sponda’ alla Sabbahi – potrà cercare anche alleanze con Mosca, Pechino, Delhi o chissà dove, però la restaurazione che si delinea segue percorsi regionali: i buoni rapporti con le petromonarchie, saudita in testa, e con Israele che stravede per il militare pronto a chiudere varchi ufficiali (Rafah) e ufficiosi (tunnel) verso la Striscia governata dai Fratelli di Hamas e silurare ogni sorta di jihadismo.

Smarrita è la Tahrir della prim’ora, quella del “6 Aprile”, dei socialisti rivoluzionari, dei cani sciolti della sinistra laica e sindacale che nella foia dell’opposizione alla Costituzione “islamica”, nel conflitto latente e poi aperto dei mesi scorsi s’è unita al Fronte di Salvezza Nazionale diventato la maschera per i reiterati massacri militari. La riabilitazione di Mubarak non va giù a questo fronte già minoritario e oggi surclassato dai Tamarod, spiazzati un po’ anche loro dalle conseguenze della sentenza che porta il simbolo di trent’anni d’affossamento della nazione al calduccio prima d’una nuova infermeria poi nella sontuosa villa di Sharm El Sheik. Quest’immagine ridà fiato a chi non vuole che l’Egitto cambi una virgola riguardo allo strapotere economico della lobby militare, alla politica come affare clanista impregnato di corruzione, a una reale redistribuzione della ricchezza. E quel che viene propagandato come orgoglio,  autodeterminazione e allontanamento dai finanziamenti-capestro statunitensi e occidentali ha il sapore d’una possibile bugia. Basta attendere per vedere sviluppi comunque votati a schiacciare l’organizzazione della Confraternita che mostra alcune novità. Preoccupanti.

Arrestato e umiliato Badie, bloccati nonostante i travestimenti d’ogni genere anche il portavoce del partito della Libertà e Giustizia Mourad Ali e il tonitruante predicatore Safwat Hegazy, per il momento diventa Guida Suprema della Fratellanza un duro e puro: Mahmod Ezzat. Sessantanove anni, medico, fu braccio destro di Sayyid Qutb (il teorico dello scontro armato fatto impiccare nel 1966 da Nasser, al cui pensiero si richiamano anche taluni qaedisti). Ezzat ha alle spalle dieci anni di galera, dall’epoca Nasser che lo rinchiuse nel 1965 sino a Sadat, uscito terminò gli studi in medicina in Gran Bretagna, salendo la scala gerarchica dell’organizzazione anche grazie alla sua professione. Tornò in galera per la stretta repressiva di Mubarak dal 1995 al 2000. Tattico e astuto è conosciuto con l’appellativo di “volpe” sebbene siano note le su posizioni oltranziste che lo contrapponevano al moderato Badie. Dalla destituzione di Mursi sono sue le proposte di sit-in ad libitum contro cui i militari hanno deciso di scatenare la furia omicida. Adesso alle sue idee, finora marginali dentro la Confraternita, stanno guardando molti militanti. Da oggi alle prossime settimane vedremo se i “venerdì della rabbia” del “fratello di ferro” sceglieranno vie davvero non pacifiche e di rottura.

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