Mozambico, crisi umanitaria senza fine: “Ognuno si porta dietro una ferita diversa dalla guerra”
Non conosce tregua la crisi umanitaria in Mozambico. Il Paese è dilaniato da un violento conflitto armato, esploso nel 2017, che vede protagonisti il governo centrale di Maputo da una parte e i gruppi fondamentalisti islamici dall'altra. Oggetto di contesa sono soprattutto i territori del nord, in particolare la provincia di Cabo Delgado, ricchissimi di risorse minerarie, gas naturale e petrolio.
L'ultimo attacco di "sospetta matrice jihadista" nell'area ha colpito una miniera di rubini nel distretto di Montepuez, appartenente alla compagnia indiana di pietre preziose "Gemrock". Le milizie di ribelli hanno anche ingaggiato uno scontro con le truppe del governo intervenute sul posto.
Alcuni veicoli della compagnia sono stati incendiati e diversi impiegati sono risultati dispersi, ha comunicato la stessa società mineraria tramite una nota ufficiale. L'attacco ha provocato anche l'evacuazione di un sito di estrazione vicino, di proprietà della compagnia sudafricana "Gemfields".
Ma a patire le conseguenze più gravi dell'attacco ribelle sono state, ancora una volta, le popolazioni civili. Secondo la no-profit Human Rights Watch, centinaia di persone sono state costrette a fuggire dai villaggi situati nelle vicinanze delle miniere: "Questi ‘mashababos‘ senza cuore sono dappertutto – ha detto un abitante del luogo a Hrw – Sono venuti nei nostri villaggi e hanno bruciato tutto, perfino le taniche d'acqua".
"Mashababos" è il termine con cui i mozambicani hanno rinominato i combattenti islamici del gruppo "Al Sunnah wa-Jamma" (ASWJ), affiliati allo stato islamico. In questi cinque anni di guerra, i guerriglieri jihadisti hanno ucciso civili, distrutto case e rapito centinaia di donne e bambini.
Molte ragazze in particolare, sono state ridotte a schiave del sesso o rivendute ai "foreign fighters" sul posto. Le più "fortunate" sono state quelle liberate sotto pagamento di un riscatto. Tra i rapiti, anche decine e decine di ragazzini, sfruttati per ingrossare le fila dei bambini-soldato.
Dallo scoppio della guerra ad oggi, si contano oltre 4mila vittime nel Paese. Tra queste anche Suor Maria De Coppi, una missionaria italiana di 83 anni, uccisa in un raid jihadista a Chipene a inizio settembre.
Secondo i dati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ammontano a circa un milione gli sfollati interni del conflitto armato, provenienti in larga parte delle provincie settentrionali del Paese. Persone che hanno visto con i propri occhi gli orrori della guerra: rapimenti, stupri, decapitazioni in strada, atti di tortura.
Cooperanti di Helpcode Italia: "Ogni sopravvissuto ha la sua ferita"
"Nei campi di accoglienza c'è chi ha subito mutilazioni o soffre di stress post-traumatico. Ci sono persone che di notte non dormono e altre che soffrono di depressione e mostrano tendenze suicide. Ognuno si porta dietro una ferita diversa dalla guerra: tutti hanno toccato la violenza con mano o hanno perso una persona cara durante gli attacchi".
Lo racconta a Fanpage.it Giulia Moro, 28 anni, cooperante italiana in Mozambico da oltre un anno. Dopo un'esperienza di volontariato in Kenya, Moro ricopre adesso il ruolo di "responsabile del settore protezione" locale per conto di Helpcode, una onlus italiana attiva nel Paese da circa 30 anni.
"A queste persone offriamo servizi di base e sostegno psicologico, in modo che si sentano più sicure e meno sole – spiega la cooperante – purtroppo il conflitto ha creato una situazione di ulteriore vulnerabilità per i civili".
Accesso a documenti, cibo, acqua, salute ma anche attività di svago e reinserimento scolastico per i bambini. Su questi punti si concentrano gli sforzi degli operatori umanitari. Quest'anno le squadre di soccorso di Helpcode hanno raggiunto circa 26mila persone dislocate in 65 diversi campi di accoglienza.
Le attività di Moro consistono in progetti di risposta a soprusi e casi di violenza di genere: "Molte ‘sopravvissute' nei campi sono costrette a condividere bagni comuni o a prostituirsi in cambio di un po' d'acqua – racconta ancora la cooperante di Helpcode – e alla sera hanno paura a uscire dai campi perché non si sentono sicure. Purtroppo il Mozambico è un paese in cui la violenza era già radicata da tempo, anche prima dello scoppio della guerra".
Altrettanto delicata la situazione dei bambini, che rappresentano circa la metà della popolazione nei campi: "Molti di loro non hanno accesso ai servizi di base (acqua, cibo, istruzione ecc… n.d.r.), altri hanno perso i propri genitori o sono rimasti separati dal resto della famiglia", spiega sempre Moro.
Dopo l'identificazione e l'individuazione della famiglia di origine, il prossimo step è il reinserimento scolastico: "Il trauma della guerra e la perdita di anni di scuola inciderà senz'altro sul loro futuro – continua la responsabile di progetto – gli edifici scolastici dei centri di accoglienza sono costruiti con materiali del posto e spesso non hanno la capacità di ospitare tutti i bambini di un campo".
E in un certo senso gli orrori, della guerra colpiscono anche chi si muove sul campo: "Quando andiamo nei luoghi teatro di violenza e attacchi è difficile restare impassibili: il peso di ciò che è accaduto in quei posti ricade molto sul nostro stato d'animo".
Helpcode al momento sta partecipando alla definizione operativa del piano di risposta umanitaria 2023 per la provincia di Cabo Delgado, insieme alle altre organizzazioni impegnate nel fronteggiare l'emergenza: "Continueremo a lavorare in sintonia anche l'anno prossimo – conclude infine Moro – ma c'è sempre della frustrazione nel constatare ogni anno il problema dell'insufficienza dei fondi a disposizione. L'Onu stima che il prossimo anno circa un milione e 200mila persone avranno bisogno di assistenza urgente: è quasi impossibile pensare di raggiungerle tutte".
Cabo Delgado: un'area strategica contesa da jihadisti e multinazionali
Il giacimento di Montepuez a Cabo Delgado – riporta Startmag – rifornisce da solo circa l'80% del commercio mondiale di rubini. Inoltre, il Mozambico risulta essere il terzo paese africano più fornito di gas naturale (dopo Algeria e Nigeria), con riserve accertate di oltre 3mila metri cubi. Nel sottosuolo della provincia è presente anche la grafite, indispensabile per produrre le batterie dei veicoli elettrici.
Sono tanti gli occhi puntati sulle ricchezze di Cabo Delgado, non solo quelli dei fondamentalisti islamici. L'altro fuoco che stringe nella sua morsa la comunità locale sono infatti le multinazionali, che da anni sfruttano le immense risorse del territorio.
La Gemfields è una di queste: nel 2019 la corte suprema britannica ha inflitto una sanzione di 8,3 milioni di dollari alla compagnia sudafricana (con sede legale a Londra) per le gravissime violazioni dei diritti umani compiute nelle miniere a cielo aperto di Montepuez: case incendiate, sparatorie, persone seppellite vive, abusi e torture.
Tutto pur di proteggere i terreni in concessione alla multinazionale dalle incursioni dei piccoli minatori abusivi, nonostante il sito della compagnia parli di un business contraddistinto da "valori etici".
Tra settembre e ottobre, inoltre, si sono verificati frequenti scioperi nella miniera di grafite di Balama, controllata dalla compagnia australiana Syrah Resources: i lavoratori chiedevano stipendi più alti e condizioni di lavoro migliori.
Negli ultimi anni gli attentati jihadisti hanno spesso interrotto anche le attività estrattive di gas, in particolare nel distretto di Palma, dove il progetto da 20 miliardi di dollari della multinazionale francese Total è stato "congelato", in attesa che si plachi l'escalation di violenza.