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Minatori sudafricani uccisi e oltraggiati: ma non arretrano di un passo

Tutta la storia dei minatori sudafricani – in sciopero da un mese – massacrati dalla polizia e oltraggiati dalla ridicola offerta della multinazionale del platino “Lonmin”. I minatori continuano la loro lotta, in un Sudafrica mai così vicino agli anni dell’Apartheid.
A cura di Anna Coluccino
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minatori sudafricani uccisi sciopero

Lavorare in miniera – Una premessa indispensabile

Cominciamo con una premessa che potrebbe suonare ovvia e retorica ma che – nonostante l'evidenza – pare non essere mai tenuta in sufficiente considerazione ogni qual volta si parla di miniera. Prima di aprir bocca, infatti, non si dovrebbe mai prescindere dal considerare, ammettere e premettere che quello di minatore è uno dei mestieri peggiori che esista: lo è in termini di fatica fisica, condizioni di lavoro, rischi per la salute. Secondo alcuni, è addirittura IL peggiore tra i lavori. E si tratta di una tesi avvalorata da decine di proverbi, detti popolari, espressioni del parlato che rimandano sempre al mestiere di minatore come simbolo ultimo di quel che si intende per sgobbare, sacrificarsi al lavoro. Ma non è questa la sede adatta a stilare la classifica dei lavori pesanti. Quel che è certo è che non esistono lavori intellettuali che possano reggere anche solo vagamente il paragone con il peso fisico e psicologico, il rischio di morte, il buio che diventa colore predominante di un'intera esistenza, i turni massacranti tipici del lavoro del minatore. Si tratta infatti di un lavoro che viene scelto solo e sempre come unica via di fuga dalla povertà. Naturalmente esisteranno delle eccezioni, ma poco rilevanti in questo contesto. Il fatto di voler sottolineare questo aspetto non significa – forse vale la pena specificarlo – che chi scrive vorrebbe applicare una sorta di rivoluzione culturale in senso maoista per far capire a tutti cosa significa affrontare (giorno dopo giorno) un lavoro del genere, significa soltanto che il presupposto da cui far partire ogni considerazione è l'ammissione che noi – tutti – pur ignorando cosa davvero significhi vivere da minatore, ne sappiamo abbastanza per aver scelto di non fare quel mestiere, e lo abbiamo scelto perché avevamo delle alternative. Qualcuno – però – quel mestiere si trova costretto a farlo, e di tale sacrificio bisogna avere rispetto. Un minatore sacrifica se stesso (lentamente, ogni giorno) per offrire al mondo di sopra sia risorse indispensabili che risorse superflue, e lo fa a costo della salute, molto spesso della vita. In cambio chiede un salario che gli consenta di vivere con dignità.

Per comprendere quanto quel "a costo della vita" non sia affatto un'iperbole dal facile effetto retorico, basta verificare l'incredibile numero di catastrofici incidenti che hanno riguardato le miniere di mezzo mondo e  in cui hanno perso la vita migliaia e migliaia di lavoratori; basta pensare agli eventi che – negli ultimi anni – hanno fatto scalpore e basta immaginare che quei macro-eventi non sono che la punta dell'iceberg di pericoli, incidenti, ferimenti, e morti quotidiane.

La richiesta dei minatori sudafricani: un salario più umano

An injured miner listens to Former African National Congress' Youth League leader on August 18, 2012 at London-listed Lonmin's Marikana platinum mine, where police opened fire on hundreds of workers staging a wildcat strike on August 16. South African investigators today probed the police killing of 34 striking platinum miners, as the nation sought answers following the deadliest protest since apartheid.  AFP PHOTO / STRINGER

E – in cambio di questo sacrificio sociale, in cambio del concreto rischio di morire, ogni giorno, a 1200 metri di profondità per garantire ad altri il superfluo – i minatori sudafricani avevano chiesto (per loro stessi) il necessario: un salario umano (quantificato in 1200 euro) e condizioni di lavoro più sicure. Lo avevano chiesto a miliardari in colletto bianco che siedono su costosissimi troni in pelle umana e abitano in loft superaccessoriati mentre i minatori vivono in fetide baraccopoli vicine alle miniere; lo avevano chiesto a chi guadagna milioni e milioni di dollari ogni giorno grazie alle estrazioni, uomini d'affari che commerciano platino (non tappi di bottiglia), miliardari a capo di una multinazionale inglese – la Lonmin – che da oltre un secolo commercia il suddetto metallo prezioso e a cui i 27.800 lavoratori della miniera del Marikana hanno fatto guadagnare – solo nel 2011 – quasi due miliardi di dollari; lo avevano chiesto a individui che neppure si sarebbero accorti della fuoriuscita di quel denaro così come non ci si accorge di un rubinetto che sgocciola lentissimamente e lo avevano chiesto con uno sciopero: unico modo per ricordare a chi vive al piano di sopra, che senza il lavoro di chi abita al piano di sotto non si va da nessuna parte.

minatori in sciopero sudafrica

Il platino non si estrae da solo, e gli autori materiali di quell'incredibile lavoro rivendicavano il diritto a una porzione della ricchezza che producono che non somigliasse a uno sputo in un occhio, che non fosse la ridicola controfigura della miseria.  Ma i proprietari della multinazionale non volevano stabilire un precedente, rischiando poi di doversi piegare sempre più spesso alle folli richieste dei loro schiavi, e allora hanno deciso che l'unica via era negare ogni possibilità di trattativa e costringere gli schiavi a rientrare nei ranghi. Come? Con il metodo Bava Beccaris: chiamare la polizia e lasciare che spari sui lavoratori. Ne sono morti quarantaquattro nel massacro dello scorso 16 agosto, altri sessantotto sono stati feriti, duecentosettanta sono stati tratti in arresto. Solo una settimana prima, altre 10 persone avevano perso la vita, tra cui due poliziotti uccisi a colpi di machete e due guardie di sicurezza delle miniere (bruciate vive). Perché quel che troppo spesso si stenta a capire è che costringere quasi trentamila persone a lavorare come schiavi per poi offrire loro un salario da fame è violenza: violenza spietata a cui non può che seguire altra violenza, in una spirale che non ha mai smesso di vorticare da quando esiste l'uomo.

minatori massacrati dalla polizia in sudafrica

Ma la cosa più assurda è che per il massacro operato dalle forze di polizia – in un primo momento – erano stato incriminati i minatori stessi. I duecentosettanta arrestati nel giorno del massacro del 16 agosto, infatti, hanno rischiato per settimane di essere giudicati colpevoli della morte dei loro colleghi, e questo per via dell'esistenza di una ridicola disposizione normativa – figlia dell'Apartheid e mai abrogata – denominata common purpose ovvero "intento comune". In virtù di tale incomprensibile dottrina giuridica è possibile incriminare tutte le persone presenti al verificarsi di un illecito per il semplice fatto di condividerne gli scopi. Peccato che l'illecito sia stato commesso dalla polizia su mandato chiaramente politico e che nessun poliziotto sia stato incriminato per il fatto. Secondo le prime dichiarazioni delle forze dell'ordine, infatti, il massacro era avvenuto nel corso di un attacco frontale da parte dei minatori – armati di bastoni e machete – e la sparatoria si era perciò resa necessaria per preservare l'incolumità dei poliziotti. Peccato che secondo le varie autopsie, i minatori siano stati uccisi da colpi esplosi a distanza ravvicinata, a bruciapelo, in qualche caso alle spalle. Dati che non avvalorano affatto il pretesto della "legittima difesa". Fortunatamente, l'indignazione internazionale è servita a evitare che i minatori arrestati venissero incriminati per strage e, lo scorso 3 settembre, sono stati rilasciati (anche se non tutte le accuse a loro carico sono cadute).

rilascio minatori sudafricani

Secondo alcune interpretazioni, alla base del massacro ci sarebbe anche uno scontro politico tra i due principali sindacati dei minatori: l'emergente Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu), promotore dello sciopero che in pochi mesi ha raccolto decine di migliaia di adesioni, e il National Union of Mineworkers (Num), sindacato storico e ben agganciato politicamente, accusato di non fare abbastanza per aumentare i salari e migliorare le condizioni di lavoro perché troppo ammanigliato con il governo e le grandi imprese minerarie. Ma, quali che siano le intricate vicende politiche che hanno portato al massacro, resta il fatto che – a quasi vent'anni dalla fine dell'Apartheid –  il Sudafrica è il paese più ricco del continente africano, ma questa ricchezza circola nelle sole tasche dei bianchi e di una piccola élite di neri. Il resto della popolazione (composta da quasi 50 milioni di persone) cerca di sopravvivere alla miseria più assoluta.

L'oltraggio finale, le nuove aggressioni della polizia

minatori sudafricani platino in sciopero

Dopo tutto questo sangue, dopo aver constatato che i minatori sudafricani sono pronti a morire pur di difendere la loro dignità di lavoratori e di esseri umani, qualche giorno fa la multinazionale multimiliardaria Lonmin ha comunicato la sua offerta. Un'offerta-beffa, ridicola e oltraggiosa, il cui unico obiettivo sembra essere quello di far montare ancor più rabbia in chi sente di non aver più nulla da perdere, esseri umani che preferiscono morire piuttosto che svendere – ancora una volta – il loro valore allo sfruttatore bianco. L'offerta che la Lonmin ha fatto per convincere i minatori a tornare a lavoro consiste in un aumento di 95 euro, aumento che porterebbe il salario dei lavoratori a 550 euro a fronte dei 1200 richiesti dagli scioperanti. Naturalmente, i minatori hanno rifiutato con forza l'offerta, dichiarando di sentirsi offesi e oltraggiati dalla multinazionale inglese e ribadendo l'intenzione di non tornare al lavoro fin quando le loro richieste non verranno esaudite. Per tutta risposta,  nella giornata di ieri, dodici blindati della polizia hanno attaccato con lacrimogeni e pallottole di gomma i minatori che vivono nella baraccopoli di Wonderkop, hanno sorvolato l'area con gli elicotteri e hanno sequestrato bastoni e machete.

Il messaggio è chiaro: non esistono diritti, non esiste alcuna contrattazione, esistono padroni e schiavi e gli schiavi devono accettare la loro condizione di subalternità se vogliono continuare a sopravvivere. Ma c'è una grande ovvietà che sembra sfuggire ai multimiliardari della Lonmin; un'ovvietà ribadita in molte formule retoriche e confermata da migliaia di pieghe della storia: non esiste proiettile al mondo capace di uccidere un'idea. E l'idea che anima i minatori sudafricani- oggi – è che se di qualcosa bisogna pur morire, tanto vale morire di giustizia.   

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