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Conflitto Israelo-Palestinese

“Mia figlia uccisa da un cecchino israeliano, ora lotto per salvare chi resta”: la storia di Aramin

Parla Bassam Aramin, palestinese di Hebron, cofondatore di Combatants for peace e membro di Parents circle: “Ho scelto la nonviolenza perché a quel tempo mi parve lo strumento più efficace”.
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Bassam Aramin nel suo ufficio a Beit Jala di Lidia Ginestra Giuffrida
Bassam Aramin nel suo ufficio a Beit Jala di Lidia Ginestra Giuffrida
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In un quadro mediorientale in fiamme, caratterizzato dalla sempre più accesa contestazione a Nethanyau dentro Israele, dall'aumento esponenziale della violenza nella Cisgiordania occupata e degli incessanti bombardamenti sulla Striscia, le voci che chiedono una pace giusta sembrano, ormai, urlare ai muri. Fedeli ad un’idea di riconciliazione e coresistenza che ogni anno, ogni mese, appare più utopica.

Bassam Aramin, palestinese originario di Hebron, cofondatore di Combatants for Peace, movimento egualitario, binazionale di ex militari israeliani ed ex combattenti palestinesi, impegnato nella resistenza non violenta contro "l'occupazione israeliana e tutte le forme di violenza" in Israele e nei territori palestinesi, nonché membro di Parents circle, il forum di familiari delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ha raccontato a Fanpage.it la sua storia.

“L'accordo di Oslo mi diede l’illusione che forse attraverso i negoziati avremmo potuto cambiare prospettiva. Non ho scelto la nonviolenza perché non credevo più nella violenza o perché io sia calmo e gentile nei confronti del mio occupante, ma solo perché a quel tempo mi parve l’unico modo possibile di lottare, lo strumento più efficace per parlare con quei criminali”, racconta Aramin, nel suo ufficio a Beit Jalla, a pochi minuti da Betlemme. Mentre ripercorre la propria storia, il suo sguardo al di là della finestra sembra impigliarsi nel filo spinato del muro che lo separa da Gerusalemme.

Nel 1992 Bassam era appena uscito dalle carceri israeliane, dove è stato rinchiuso dai diciassette ai ventiquattro anni. “Io e un gruppo di amici avevamo sedici anni quando trovammo delle armi in una grotta vicino Hebron. Un giorno due di loro lanciarono delle granate contro dei militari israeliani che stavano assediando il nostro villaggio, non si fece male nessuno perché eravamo dei bambini e non sapevamo usarle. Ma l’anno successivo tutti noi siamo stati arrestati”, spiega.

Gaza - Distruzione dopo bombardamenti israeliani a Deir al-Balah
Gaza – Distruzione dopo bombardamenti israeliani a Deir al-Balah

"In carcere ho imparato che se conosci il tuo nemico puoi sconfiggerlo e puoi ucciderlo. Se lo odi, ucciderai te stesso. È lui il tuo nemico, l’odio. Quindi negli anni del carcere mi sono detto: voglio uccidere il mio nemico e non me stesso. Bisogna essere pragmatici e conoscere il proprio nemico per sapere come combatterlo. E così per la prima volta ho visto un film sull'olocausto – continua Aramin – all’inizio volevo viverlo come una specie di vendetta, vedere come i miei carcerieri erano stati uccisi, ma dopo pochi minuti improvvisamente mi sono ritrovato a piangere. Cercavo di nascondere le mie lacrime agli altri detenuti. Ho temuto che in quel momento stessi giustificando il comportamento brutale dei soldati israeliani. Per la prima volta mi sono detto: anche se quel film fosse stato tutto frutto di un’invenzione, se quei soldati lo guardano poi verranno nel mio villaggio e si comporteranno nello stesso modo, come macchine da guerra. E se questa cosa prima o poi accadesse anche a noi, a noi palestinesi, forse perderemmo la nostra umanità e agiremo nello stesso modo brutale".

Nel 2017 Bassam Aramin si trasferisce negli Stati Uniti e si laurea con una tesi sull’olocausto. “Quando mi sono laureato mi sono ricordato della frase di Nelson Mandela: se vuoi fare pace con il tuo nemico, devi lavorare con lui, e il tuo nemico diventerà il tuo partner”.

Quando ancora giovanissimo esce dal carcere, sulla scia della promessa di pace che veniva dagli accordi di Oslo, si sposa e mette al mondo sei figli. È sulla stessa onda che nasce Combatants for peace. “Noi abbiamo i nostri valori. Dobbiamo proteggere la nostra umanità e mantenerci umani perché siamo combattenti per la libertà. A quel tempo volevo fare tutto il possibile per proteggere i miei figli, per educarli, mi domandavo come farli crescere. Ma ero sicuro avrebbero avuto una bella vita perché avremmo vissuto in pace”, racconta sorridendo.

“Nel 2002 ho sentito parlare per la prima volta dei Refusenik, coloro che rifiutano il servizio militare israeliano. Ero entusiasta di sapere che c’era gente che non voleva servire nell’esercito, che rifiutava di essere un assassino. Così nel 2005 partecipai al primo incontro tra alcuni ex militari israeliani ed ex combattenti palestinesi. È stato l'incontro più difficile della mia vita. Loro erano ex soldati, avevano servito nell’esercito a Gaza, a Jenin, ad Hebron, nel mio villaggio; io ero solo un ragazzino quando combattevo, non l’avevo scelto mi ero ritrovato ad esserlo”, continua.

"Ricordo che durante il primo incontro gli ex militari israeliani ci dissero: ‘non vogliamo discutere con voi della situazione politica perché crediamo fermamente nel vostro diritto all’autodeterminazione, vogliamo lavorare con voi per porre fine all'occupazione'. Da li ci parlammo come esseri umani. Quando scopri l'umanità e la nobiltà d’animo del tuo nemico criminale, non è più il tuo nemico. Già al secondo incontro, iniziammo a parlare di più. Dopo circa 56 incontri, dissi ai ragazzi: ‘Devo dirvi la verità. Non sono un combattente. Non sono uno che ha mai ucciso. Non ho mai fatto del male a nessun palestinese e a nessun israeliano. Ma mi considero un eroe o un combattente perché ho passato sette anni in prigione. Questo è stato il mio contributo alla lotta palestinese”. Nel 2006 nasce Combatants for peace, un anno prima che una delle figlie di Bassam, Abir, venisse uccisa davanti alla scuola proprio da un cecchino israeliano. Abir aveva solo dieci anni.

“Mia figlia Abir si trovava insieme a sua sorella davanti alla sua scuola alle nove del mattino del 16 gennaio 2007, quando la polizia di frontiera israeliana le ha sparato e l'ha uccisa. È morta dopo tre giorni nello stesso ospedale in cui era nata, a Gerusalemme. Allora pensai che sarebbe stata l’ultima vittima tra palestinesi e israeliani. Decisi  che avrei perseguito in tribunale gli assassini di mia figlia fosse anche per cent'anni. Ma dopo quattro anni e mezzo gli israeliani chiusero il fascicolo su Abir dicendo che mancavano le prove. Dovevo dimostrare che mia figlia era stata uccisa dalla polizia di frontiera israeliana. Esattamente nella stessa maniera in cui quotidianamente siamo chiamati a dimostrare di vivere sotto occupazione”.

Bassam prende una foto della figlia, passa delicatamente la mano sul vetro della cornice che la protegge, per pulirla, e la mette sul tavolo: "Chiedevo solo giustizia per mia figlia, per una bambina di dieci anni. Non perché lei fosse palestinese e l'assassino un israeliano, perché aveva 10 anni e uccidere bambini non è giustificabile in nessuna circostanza da nessuna parte”.

È dopo la morte di Abir che Bassam si unisce a Parents Circle, il forum di parenti delle vittime innocenti palestinesi e israeliane di cui oggi fanno parte diversi familiari di persone uccise sotto i bombardamenti israeliani a Gaza o da Hamas il 7 ottobre. “Non sapevo come sopravvivere al dolore di aver perso mia figlia, alla rabbia, all’ingiustizia. – continua. – È un dolore incredibile ed è per sempre. È una ferita aperta nel cuore per tutta la vita. Ma nonostante la rabbia sapevo che anche uccidendo il resto degli ebrei sulla terra, non avrei più rincontrato Abir. Non è un problema personale tra me e quel soldato. Lui non è venuto a uccidere mia figlia perché era mia figlia, quel soldato era libero di uccidere qualsiasi palestinese, perché non è un crimine uccidere i palestinesi per il sistema israeliano”.

Abir non è stata l’ultima vittima innocente in quella striscia di terra, dopo diciassette anni dalla sua morte i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza continuano ad essere uccisi impunemente dall’esercito israeliano, e dal 7 ottobre sono in migliaia.

Campo rifugiati a Deir al-Balah nella striscia di Gaza
Campo rifugiati a Deir al-Balah nella striscia di Gaza

“Siamo ancora qui, ma con più dolore, e con più vittime”, continua Bassam, “io sono ancora arrabbiato e continuerò ad esserlo per sempre. Se non fossi arrabbiato per l’uccisione di mia figlia, per il massacro di più di 40.000 civili a Gaza, se non fossi arrabbiato per l’assassinio di civili israeliani non sarei un essere umano. Io sono arrabbiato. È difficile non trasformare la rabbia in odio e in vendetta, è difficile vedere anche l’altra parte finché non si riscopre la propria umanità, finché non si capisce che apparteniamo all'umanità e non siamo animali. Questa è la differenza tra noi e gli animali: gli animali si uccidono a vicenda per esistere. Noi possiamo ancora vivere senza ucciderci a vicenda? Questa è la grande domanda e la mia risposta è ancora sì, possiamo farlo”.

Si alza, posa la foto della figlia, guarda un gruppo di giovani ragazzi e ragazze palestinesi che lavorano con lui: “Non date via la rabbia perché farete del male in primo luogo a voi stessi e farete del male anche agli altri e gli altri verranno a vendicarsi e a farvi del male a loro volta. Rabbia non vuol dire odio, non vuol dire vendetta. Se io avessi voluto vendicarmi, probabilmente i miei figli lo avrebbero fatto per me, avrebbero ucciso, e sarebbero stati uccisi. Il che significa uccidere i nostri figli con le nostre stesse mani. Quando capiremo che non esiste una soluzione militare a questo conflitto? Anche dopo 1000 anni, se c’è occupazione, ci sarà una resistenza da fermare. Finché l'occupazione continuerà, continueremo a sacrificare i nostri figli. La presenza di Israele in questi territori è illegale, e a dirlo è la Corte di Giustizia Internazionale, il che significa che abbiamo il diritto di combattere e resistere. Ma abbiamo combattuto per più di 100 anni. Qual è il risultato alla fine? Dobbiamo vivere insieme. Quindi cominciamo a lavorare per la convivenza adesso, per salvare le vite dei figli che restano”.

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