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“Meglio rischiare di perdere la vita che la libertà”: cosa succede a 10 anni dalla liberazione di Kobane

Nel decimo anniversario della liberazione di Kobane dagli uomini di Daesh, nell’ospedale di Raqqa regna la paura di essere nuovamente invasi. Su Fanpage.it la storia di Hazem colpito dalla scheggia di un drone turco.
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Il piccolo Hazem e la sua famiglia all'ospedale di Raqqa. Foto di Lidia Ginestra Giuffrida
Il piccolo Hazem e la sua famiglia all'ospedale di Raqqa. Foto di Lidia Ginestra Giuffrida

Una donna urla, è disperata. La figlia la sorregge mentre corre via verso la strada. Tutto intorno è quiete. L’ospedale di Raqqa (Siria) è circondato da un senso di profonda, disperatissima, quiete alternata da un pianto, un urlo, o dall’arrivo frenetico di un corpo ferito.

È qui che si trova il piccolo Hazem, dodici anni e una scheggia conficcata nel lato sinistro del cranio. Lui non festeggia l’anniversario della liberazione di Kobane, la sua città natale – avvenuta dieci anni fa – dall’occupazione del sedicente Stato Islamico. Qualche giorno fa è stato ferito da un drone turco mentre con la mamma, il suo papà e i suoi quattro fratellini, stava manifestando alla diga di Tishrin.

"Siamo originari di Kobane, ma vivevamo a Manbij prima che le fazioni filo turche invadessero la città. Quando sono arrivati siamo stati costretti a scappare a Kobane", racconta Emira Idiris, la madre del bimbo, mentre accarezza la coperta che copre il suo corpicino. "Siamo curdi e sappiamo che loro i curdi non li accettano, noi per loro siamo degli infedeli. Non accettano il modo in cui viviamo, come ci vestiamo, che noi donne non indossiamo l’Hijab. Per loro tutto questo è qualcosa di inaccettabile, non ci faranno vivere nelle nostre case e prenderanno i nostri figli, perché per loro siamo degli infedeli", continua la donna.

Da quando è caduto il regime di Bashar Al Assad, a Damasco, qui nell’ospedale più grande del cantone di Raqqa, in Rojava, arrivano decine di feriti ogni giorno. La diga di Tishrin, dove da settimane l’aviazione turca e le sue milizie proxy in Siria combattono contro le forze democratiche siriane, e Kobane, accerchiata dall’artiglieria pesante turca, sono a pochi chilometri da qui. Ogni giorno decine di civili vi si recano in convoglio per manifestare contro l’invasione turca. In occasione del decimo anniversario della vittoria dei curdi sugli uomini di Daesh e la liberazione della città baluardo della rivoluzione del Rojava, tra Raqqa e Kobane non si respira aria di festa. È la paura che regna tra la gente, il terrore di potersi ritrovare presto nuovamente occupati. Questa volta, come già avvenuto per altre città della Siria del Nord Est nel 2017, dalla Turchia.

L'ospedale di Raqqa finaziato dall'Italia. Foto di Lidia Ginestra GIuffrida
L'ospedale di Raqqa finaziato dall'Italia. Foto di Lidia Ginestra GIuffrida

“Non siamo sicuri da nessuna parte – continua Emira Idris – neanche dentro la nostra casa. Le milizie filo turche sanno dove vivono i curdi e li vanno a prendere casa per casa. Per questo non abbiamo avuto altra scelta che quella di fuggire da Manbij".

Il più piccolo dei figli le si aggrappa ad una mano, il marito resta in disparte mentre lei con lo sguardo dritto davanti a sé racconta: "Avevamo scelto di andare a manifestare quel giorno. Hazem stesso mi aveva chiesto di andare alla diga per far sentire la nostra voce. È voluto venire di sua spontanea volontà, siamo andati tutti insieme con una carovana di civili, poi i turchi ci hanno attaccato con i droni e ad Hazem si è conficcata una scheggia in testa".

Adesso il bimbo è ricoverato e sotto osservazione, ma i genitori non sanno per quanto tempo dovrà stare nell’ospedale di Raqqa, ospedale finanziato direttamente dall’Italia. La madre però non smette di sperare e con il sorriso negli occhi chiede che venga raccontata la storia del figlio. "Andare a protestare era un nostro dovere – conclude mentre il marito le appoggia teneramente un braccio sulla spalla -. Se queste fazioni attraverseranno il fiume uccideranno tutti, adulti e bambini, anche i miei figli. Preferiamo rischiare di perdere la vita che la libertà del nostro popolo".

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