“Meglio a Gaza sotto le bombe che al Cairo”: le storie dei palestinesi bloccati nel limbo egiziano
Il Cairo è la culla del Mediterraneo che fu, del commercio marittimo, delle prosperose interconnessioni tra sponde opposte, del libero passaggio di merci ed esseri umani, sono le piramidi, i sarcofagi ancora perfettamente conservati, è l’aria pesante di smog, le macchine che corrono all'impazzata, la confusione, le insegne della Coca Cola sopra le teste di donne velate.
Cairo è più del 90% della popolazione sotto la soglia di povertà e il restante 10% considerato ricco perché può permettersi un tetto che non sia un cartone in mezzo alla strada. Cairo sono centinaia di migliaia di profughi e rifugiati non riconosciuti come tali che ogni giorno si mischiano alla fiumana di egiziani nel tentativo di attraversare il deserto verso la Libia per cercare fortuna in mare, nella speranza di raggiungere l’Europa.
Tra questi, chiusi tra le mura di case che non sono le loro, ci sono anche i gazawi. Usciti da Gaza prima dell’occupazione del valico di Rafah da parte dell’esercito israeliano, sono circa 100mila i palestinesi bloccati nella capitale egiziana come in un limbo.
“Io, mia moglie e mio figlio abbiamo deciso di fuggire quando l’esercito ha preso Rafah, l’unica zona dichiarata sicura, dove eravamo sfollati”, racconta Ahmed (nome di fantasia), “ho vissuto dentro la Striscia la guerra del 2006, del 2008, del 2012, del 2014, del 2018 e del 2020 ma non avevo mai visto quello che ho visto dopo il 7 ottobre 2023. Io non volevo andarmene ma ho avuto due attacchi di cuore e mia moglie un cancro, non potevamo restare”.
Ahmed conserva negli occhi la stanchezza di quei mesi, ha il passo lento e il respiro affannato mentre racconta della sua casa, Gaza, dove ha lasciato i suoi fratelli e le sue sorelle.
“Il mio posto è Gaza, il mio paradiso è Gaza. Sono nato nel campo profughi di Jabalia perché mio padre era un profugo, costretto a lasciare la propria casa a Ashdod nel 1948, una città vicino a quella che oggi è Tel Aviv. Quando sono uscito dal valico di Rafah mi sono voltato e ho pensato che sarebbe potuta essere l’ultima volta in cui vedevo casa mia. Per mio padre fu così 76 anni fa”, continua.
Da quando è arrivato al Cairo Ahmed è tormentato dagli incubi ma nella caotica capitale egiziana non c’è spazio per affrontarli. “Sogno ogni notte di essere a Gaza, nei due mesi di marzo e aprile, subito dopo essere andato via dalla Striscia, pensavo di essere impazzito. Mi tornava sempre in mente quando hanno bombardato dietro casa mia, c'erano 23 corpi fatti a pezzi, ricordo brandelli di carne ovunque intorno a me. Come posso essere normale dopo aver visto tutto questo?”.
Ma per Ahmed come per tutti i gazawi qui al Cairo non c’è nessun sostegno, non economico, non fisico, né tanto meno psicologico. Il visto con cui sono entrati in Egitto aveva una validità estendibile fino ad un massimo di 45 giorni, il che vuol dire che nessuno di loro – escluso chi possiede anche un passaporto egiziano – adesso ha un documento valido per stare nel paese.
Sono invisibili e obbligati all'illegalità, senza poter lavorare, mandare i figli a scuola, potersi curare in ospedale, poter cambiare i soldi in banca o farsi una scheda telefonica a proprio nome. Non possono uscire dal paese e se un giorno gli verrà concesso di tornare a Gaza dovranno pagare una multa al governo egiziano per essere rimasti oltre il tempo stabilito dal loro visto.
“La vita qui è difficile, Il Cairo è grande, passo il tempo chiuso in casa, l’affitto è caro ma non posso lavorare. Qui siamo in una prigione, non possiamo uscire dal paese, almeno non per vie legali, ma non possiamo neanche tornare indietro”, continua l’uomo, “non ci sono diritti per i palestinesi in Egitto, il governo prende i soldi dall’Unione Europea per i rifugiati ma non fa niente per noi, preferirei essere ancora dentro Gaza, sotto le bombe, che essere qui”.
Mohammed (nome di fantasia) invece ripete che “i più fortunati sono coloro che sono morti nei primi mesi di guerra. Qui mi sento solo, vorrei essere a Gaza, in ospedale ad aiutare. Mi mancano le strade, le persone, il mio lavoro, la mia casa che non so se è ancora in piedi. Non ho futuro qui al Cairo, anche volendo non posso averlo, ma è difficile immaginare che ci sia un futuro per Gaza, non è rimasto niente della Striscia". Giovanissimo infermiere di Khan Younis, Mohammed durante la guerra era un volontario in ospedale. Mentre parla mostra dei video nel suo cellulare, lo schermo resta nero mentre si sentono solo urla.
“Senti? questo era il suono che sentivo 24 ore su 24 in ospedale, il suono della disperazione. Questa invece – mostrando un altro video – è la fuga da Khan Younis verso Rafah, eravamo migliaia di persone che cercavano di passare dal checkpoint dell’esercito israeliano, per oltrepassarlo dovevamo essere riconosciuti da una telecamera, se questa rilevava qualcosa di sospetto (qualsiasi cosa che potesse ricondurre a una vicinanza con Hamas) ti fermavano. È successo a due ragazzi, li hanno fatti spogliare e li hanno giustiziati davanti ai miei occhi e a quelli di altre migliaia di persone”.
Anche Ahmed prende il telefono per rispondere a una chiamata: “Hello, hello come stai?”, sorride e indica il cielo, una chiamata da Deir Balah, è la sorella. “Hello, hello… internet non funziona, la connessione si è già interrotta”, abbassa lo sguardo, mette la mano davanti alla bocca come a voler trattenere le parole che sta per dire: “Se mi ha chiamato vuol dire che stanno bene, che non li stanno bombardando. Non posso dimenticare Gaza, lì c'è la mia storia e lì voglio morire. Se potessi tornerei indietro, lo farei immediatamente. Preferirei essere a Gaza sotto le bombe che al Cairo”.