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Lo stragista Breivik a processo: quando il giustizialismo non conduce alla Giustizia

Il processo ad Anders Behring Breivik per l’eccidio di Utøya si apre tra polemiche e colpi di scena. Da un lato il giovane norvegese rivendica con orgoglio il suo gesto, dall’altro un giudice popolare invoca la pena di morte su Facebook e viene ricusato dal tribunale. Eventi come quello dello scorso luglio aprono squarci profondi nel sentire collettivo, producendo – spesso – scenari in cui Vendetta e Giustizia si confondono.
A cura di Anna Coluccino
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Il compiaciuto sorriso sfoderato da Anders Behring Breivik mentre, seduto nell'aula in cui si svolge il processo che lo vede imputato, osserva le immagini del massacro da lui stesso compiuto lo scorso 22 luglio a Utøya, è di quelli che feriscono a morte. Ferisce la consapevolezza, ferisce la totale assenza di rimpianto o pietà, ferisce la placida sicurezza dello sguardo. È per questo che non stupisce affatto che molti (compreso uno dei giudici popolari chiamati a giudicare Breivik, poi ricusato) parlino di pena di morte, chiedendo che – almeno in questo specifico caso – si possa ricorrere alla pena capitale. L'umanità chiede che qualcuno paghi pegno per la barbarie che si nasconde in fondo al cuore dell'uomo, e l'incrollabile fede nella sostanziale bontà dell'animo umano svanisce specchiandosi nell'impudente mostrarsi di quel sorriso. Ciononostante, abbandonarsi al moto di sdegno, al rifiuto, al desiderio di cancellare quell'espressione dal volto di Breivik, ricacciandola nell'abisso di ignominia dal quale proviene, non farà scomparire ciò che sappiamo essere vero: nessun figlio di questa società indossa peccati originali, ogni colpa, anche la più turpe, nasce e si nutre all'interno di un sistema di relazioni da cui solo i bambini possono chiamarsi fuori e definirsi innocenti fino in fondo. Quel sorriso impone all'umanità tutta una riflessione sul senso ultimo di un termine spesso abusato e frainteso: il termine Giustizia.

Settantasette giovani persero la vita nel folle attacco terrorista che ha sconvolto l'intera società civile lo scorso anno; giovani tra i quattordici e vent'anni, sterminati a colpi d'arma da fuoco, inseguiti e abbattuti con folle determinazione; giovani la cui unica colpa era quella di militare nel Partito Laburista norvegese e di essere perciò – secondo la visione di Breivik – complici della deriva multiculturale che inquinerebbe il paese. "Non erano bambini, innocenti, ma militanti del Partito Laburista" e, in quanto tali, rappresentavano per Breivik dei "traditori della patria", traditori della purezza della razza norvegese, promotori di politiche che indeboliscono il paese trascinandolo nell'abisso del multiculturalismo, rischiando di trasformare il popolo norvegese in una minoranza all'interno della sua stessa terra. Ecco perché Andres Breivik non si mostra per nulla pentito delle sue azioni, considera se stesso una sorta di eroe della resistenza, tanto che afferma serafico "lo farei di nuovo". E sono proprio queste le parole che molti non riescono a tollerare. Di fronte all'orgogliosa rivendicazione dell'abominevole eccidio l'umanità insorge, chiedendo che Breivik non venga annoverato tra coloro che hanno ancora diritto di esistere: perché l'umanità si purifichi, occorre cancellare la colpa, estirpare il male.

Ma Breivik non vede la propria malvagità, si sente protagonista di una rivoluzione, sente di agire per il bene, sente di star combattendo una vera e propria guerra, e – si sa – la morale dei tempi di guerra è ben diversa dalla morale dei tempi di pace. In tempi di guerra, uccidere non è reato; in tempi di guerra esistono alleati e nemici, uomini da proteggere e uomini da uccidere, razze da cancellare accadendosi finanche sulle culle, eserciti che lottano entrambi in nome della dea Giustizia; dea che ciascuno dei contendenti crede di avere al proprio fianco. Breivik ha deciso che era ora di dare cominciamento alla guerra, ha scelto da che parte stare e ha dato avvio a quello che lui stesso definisce "il più sofisticato e spettacolare attacco politico mai commesso in Europa sin dai tempi della Seconda guerra mondiale". Non un atto terroristico – dunque – ma un "attacco a sorpresa ai danni dei nemici del popolo". Di fronte a tanta lucida fermezza, l'umanità strabuzza gli occhi, non riesce a credere che un uomo "normale" possa rendersi protagonista di simili bestialità, non riesce a tollerare la vista di quel saluto a mano tesa e pugno chiuso che troppo ricorda l'orrore nazista e che richiama la sbandierata appartenenza di Breivik all'Ordine dei Cavalieri Templari (sconosciuta organizzazione xenofoba e anti-islamica alla quale il giovane norvegese rivendica di appartenere). Anche stavolta, però, la troppa luce abbaglia, e mentre le colpe di Breivik vengono messe a fuoco con grande precisione, il contesto scompare, così come scompare il rispetto della propria di umanità, dell'etica.

Nel linguaggio comune, umano è sinonimo di disponibilità e tolleranza, comprensione e altruismo. Inumano è tutto quanto si contrappone alle logiche di solidarietà e mutuo soccorso. Ma allora, se questi sono i termini del discorso,  quanti gesti inumani compiamo ogni giorno? Quante volte, in nome di una presunta "libertà", calpestiamo i diritti delle donne e degli uomini con cui condividiamo lo spazio terrestre? Troppo facile puntare il dito sulla gigantografia dell'umana meschinità, troppo facile fingere di non vedere le innumerevoli microdeclinazioni di quella stessa meschinità che abitano i gesti quotidiani della gran parte della popolazione umana. Certo, esiste un'enorme differenza tra l'errore (che umanun est) e l'abiezione, ma non possiamo semplicemente pretendere di azzerare, cancellare, nascondere, abiurare tutto quanto di orribile si muove nell'Uomo illudendoci, così, di purificare il nostro lato oscuro. Non è attraverso la crocifissione dell'abietto che la razza umana può avviarsi in direzione della catarsi globale, l'immersione salvifica che lava ogni colpa, ogni dolore.

Ecco perché non possiamo che essere concordi con la decisione del tribunale di ricusare il giudice popolare che invocava per Breivik la pena di morte. Ecco perché la nobiltà della posizione non vendicativa del Partito Laburista pare l'unica possibile. Queste sono le decisioni capaci di rimettere l'umanità in pace con se stessa. Certo, il gesto non ricuce lo strappo, non caustica la ferita ma – quanto meno – non ne infligge di nuove.

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