“L’Iran può scegliere di non reagire, per ora”. L’analisi del direttore dell’International Crisis Group
È stato il raid aereo più massiccio della storia militare, probabilmente. Eppure, “meno visibile e più limitato di quello che Teheran si aspettasse”. Di fronte al dilemma se controbattere subito o porgere l’altra guancia, “è più probabile che la Repubblica islamica scelga di attendere”.
Anche perché “Biden farà di tutto per passare alla Storia come il presidente che ha fermato la guerra in Medio Oriente, e nei due mesi che gli restano alla Casa Bianca eserciterà ogni pressione possibile su Netanyahu”.
Il direttore del Progetto Iran press l’International Crisis Group, Ali Vaez, si aspetta che prevalga il contenimento. Sottolinea che una parte della élite e molti diplomatici di Teheran sono per la moderazione. Ma avverte: “Finché non si affrontano le cause profonde – la guerra a Gaza e il conflitto in Libano – la situazione attuale è destinata a riproporsi”. Mentre l’Iran “sta seriamente valutando l’ipotesi di una militarizzazione nucleare”.
Dottor Vaez, l’attacco israeliano è una sfida all’escalation o è stato calibrato per dare all’Iran la possibilità di non rispondere?
Sembra che l’attacco israeliano sia stato di intensità inferiore rispetto alle attese, come risposta all’attacco iraniano del 1° ottobre. L’Iran ha ammesso danni e vittime. Ma potrebbe aver minimizzato l’entità delle perdite, per crearsi la possibilità di evitare una reazione immediata.
Di certo, se l'azione fosse stata pensata per la tv, con esplosioni massicce riprese dalle telecamere, la Repubblica islamica avrebbe dovuto per forza reagire subito. Ma se Israele si limiterà a questa portata, senza ulteriori attacchi cinetici o cyber, entrambi i Paesi potrebbero metterci una pietra sopra e contenere le tensioni. Per un periodo comunque limitato. Perché finché persistono le cause profonde – la guerra a Gaza e il conflitto in Libano – è molto probabile che nei prossimi mesi la situazione si riproponga.
Per Teheran ora si tratta di scegliere tra deterrenza e guerra. Pensa davvero che prevarrà la cautela?
La leadership iraniana si trova di fronte a un dilemma: da un lato, questo è il primo attacco diretto e dichiarato contro la capitale da parte di una potenza straniera dai tempi della guerra con l’Iraq. Si è superata una soglia significativa. Nell’establishment, c’è chi ritiene che se l'Iran non rispondesse, Israele potrebbe intensificare ulteriormente le sue azioni.
Altri però sostengono che il momento sia troppo delicato, con le elezioni statunitensi dietro l’angolo. E poi le difese aeree iraniane sono state colpite duramente. Lo scudo è incrinato. Il pericolo è grande. Senza contare che Hezbollah è in ginocchio. Anche dal punto di vista strettamente militare, il momento è dei peggiori per contrattaccare. La strategia dominante sembra favorire la moderazione e un’attesa prudente. Va considerata anche l’età avanzata del leader supremo: Khamenei ha 86 anni, è diventato più avverso al rischio. È ben consapevole dell’azzardo e dei costi elevati di un’escalation, per la Repubblica islamica.
L’Iran ha le capacità militari per far la guerra a Israele?
L’ Iran ha dimostrato di poter infliggere danni significativi a Israele. Lo si è visto negli attacchi di aprile e in quello del 1° ottobre: la difesa israeliana è stata penetrata a più livelli. Se si decidesse di colpire infrastrutture civili, meno protette rispetto alle basi militari, l’impatto potrebbe essere devastante e causare molte vittime tra la popolazione, alimentando ulteriormente la spirale del conflitto. Le capacità di far la guerra a Israele ci sono. Resta dubbio se siano disposti a pagare i costi di un’escalation.
Quanto conta Teheran sulle pressioni degli Usa su Israele affinché contenga la sua azione?
Anche in Iran si capisce che l’amministrazione Biden, anche se non è riuscita a evitare questa escalation, merita riconoscimento per aver cercato di contenere l’ampiezza degli attacchi israeliani, sperando che entrambe le parti possano ora trovare un punto d’equilibrio.
Quanto può contare il fatto che il nuovo presidente, Masoud Pezeshkian, sia considerato una “colomba”, nel panorama fondamentalista dell’Iran? Potrebbe favorire scelte moderate, nella risposta a Israele?
Il presidente iraniano non è il decisore finale (che resta la “guida suprema”, l’ayatollah Ali Khameney, ndr): ma è un segnale positivo che vi siano voci di moderazione nelle alte sfere di Teheran. In particolare tra i diplomatici, che comprendono bene il contesto internazionale e possono cercare soluzioni diplomatiche creative. Però non dipende solo da loro. Va considerato anche lo scenario più ampio, con l’imprevedibilità delle azioni israeliane. In generale, è incoraggiante che l’attacco di Israele sia stato finora più limitato di quanto si temesse inizialmente.
E qual’è lo “scenario più ampio”? È possibile identificarlo, prima delle presidenziali americane?
Molto dipenderà dalle dinamiche elettorali negli Stati Uniti. Ma se non vi sarà un processo elettorale prolungato o contestato, qualunque sia l’esito per i Democratici, il presidente Biden avrà maggiore margine politico per usare l’influenza americana su Israele e cercare di portare alla fine del conflitto in Medio Oriente.
Ma Biden è la classica “anatra zoppa”. Mancano due settimane alle elezioni. Cosa può fare ancora per esercitare la leva dell’America su Israele?
Il presidente Biden ha ancora circa due mesi in carica, durante i quali può tentare di frenare l’escalation. La sua amministrazione ha già posto le basi, avvertendo Israele che potrebbe ridurre il supporto militare se la situazione umanitaria a Gaza non migliora, sfruttando così la leva più forte a disposizione degli Stati Uniti. Biden, consapevole dell’impatto di questo conflitto sulla sua eredità politica, ha adesso meno vincoli per esercitare pressione su Israele. Non che questo garantisca il successo: Netanyahu può semmai acconsentire solo a soluzioni temporanee, con quello che presto sarà solo un ex presidente.
E se vince Trump?
Allora Israele avrà mano libera. Il governo di Israele non aspetta altro.
Dal dicembre 2023, quando l’Iran accusò Israele di aver ucciso il generale Sayed Moussavi, l’escalation è stata continua. Fino all’attacco aereo delle scorse ore. Nel frattempo, il dibattito sull’opportunità di dotarsi dell’atomica è diventato esplicito, nelle alte sfere di Teheran. Si sta andando in quella direzione?
L'escalation spinge l'Iran a considerare un possibile cambiamento nella sua dottrina nucleare, dato che la deterrenza regionale e convenzionale non ha garantito l’immunità agli attacchi esterni. Ora più che mai Teheran sta valutando l’ipotesi di avvicinarsi alla militarizzazione nucleare. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Il processo verrebbe con ogni probabilità scoperto dalle intelligence di Israele e Stati Uniti. Diventerebbe così un casus belli.
Giustificherebbe attacchi contro le installazioni nucleari. E poi, è vero che l’Iran può ottenere il materiale fissile per una bomba atomica in meno di una settimana. Ma servirebbero poi almeno sei mesi per costruire l’arma vera e propria. Nel frattempo, il Paese resterebbe vulnerabile agli attacchi convenzionali. L'incentivo a considerare questa opzione è forte, ma il percorso verso una deterrenza nucleare non è per niente semplice.