“L’Iran non è mai stato così vicino all’atomica”: l’analisi del direttore dell’International Crisis Group
“Sei giorni per arricchire l’uranio e almeno sei mesi per fabbricare l’arma”. L’ayatollah Khamenei potrebbe presto avere l’atomica. Perché la guerra di Israele a Gaza e gli attacchi reciproci dell’ultima settimana “hanno spinto l’Iran a considerare le sue capacità nucleari come deterrente definitivo”. Ali Vaez è il capo del programma iraniano dell’International Crisis Group (Icg), organizzazione non governativa per la prevenzione delle guerre. Ed è preoccupato perché non ha mai sentito ufficiali e politici iraniani “parlare così apertamente della possibilità di convertire il programma nucleare del Paese a fini militari”, spiega. Vaez ritiene che “mai negli ultimi vent’anni” Teheran è stata così vicina a farlo.
L’escalation retorica sulla “bomba” inciampa nella fatwa lanciata dalla guida suprema Khamenei negli anni ’90 contro gli ordigni atomici, dopo la sanguinosa guerra con l’Iraq e l’uso di armi chimiche da pare di Saddam. Ufficialmente il programma nucleare iraniano è sempre stato solo finalizzato all’uso civile. Sul nascosto lavorìo degli scienziati per arrivare comunque a ottenere un arricchimento dell’uranio fino al 90% che ne consente l’uso bellico, si aprì comunque una lunga crisi internazionale. Che sembrava risolta con l’accordo firmato a Ginevra nel 2015 con Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Germania, Stati Uniti e Unione Europea. Ma nel 2018 l’allora presidente Usa Donald Trump quell’accordo l’ha stracciato.
“Oggi la sorveglianza sulle attività nucleari iraniane da parte dell’Agenzia dell’Onu preposta è insufficiente”, dice Ali Vaez a Fanpage.it. Se si volesse produrre il materiale fissile in uno dei bunker sotterranei costruiti negli anni recenti, nessuno se ne accorgerebbe. Non ci sarebbero intoppi. E i tempi sarebbero rapidi. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), a febbraio le scorte di uranio arricchito al 60% dell’Iran erano di 27 volte superiori a quelle ufficialmente consentite. Ammontavano a 87,5 chili. Per una singola arma, di chili ne bastano 55.
Niente succederà nell’immediato. Anzi, dopo gli scambi di missili e droni degli ultimi giorni potrebbe ristabilirsi un po’ di calma, ritiene Vaez. Ma gli scenari che possono aprirsi sono i peggiori possibili.
Dottor Vaez, davvero l’Iran non reagirà dopo l’attacco della scorsa notte?
"L’azione portata a termine da Israele rientra nella categoria delle operazioni segrete, per così dire. Consente all’Iran di assorbirla senza sentire il bisogno di alzare la posta".
In che senso è stata una “operazione segreta”? Forse perché in effetti si è visto poco di quel che è successo? Forse perché non è successo granché?
"Israele ha voluto chiaramente dimostrare all’Iran cosa avrebbe potuto fare. Senza farlo. Quindi, questo capitolo è chiuso, in quanto tale. Ma non significa che entrambe le parti riescano a evitare un’ulteriore escalation in futuro, soprattutto se la guerra a Gaza continua o prende una brutta piega".
Intanto, sono cambiate le regole d’ingaggio. La guerra tra Israele e Iran non è più solo una guerra fredda. Teheran potrebbe considerare di mettersi alla pari e dotarsi di armi nucleari?
"Si sta certamente muovendo in una direzione molto pericolosa. Non ho mai visto un dibattito così aperto in Iran sull’utilità di attraversare il Rubicone e sviluppare armi nucleari come deterrente finale. È certamente il segno di un cambiamento di prospettiva e di calcolo".
Ma non è che si tratta di propaganda? Un po’ come in Russia, dove ormai in tivù si parla di lanciare atomiche a destra e a manca come fossero coriandoli a carnevale?
"Non è solo propaganda. Si deve considerare che in Iran esiste da tempo una strategia volta a negare che il programma nucleare in atto abbia uno scopo diverso da quello pacifico. E si sa, il leader supremo ha lanciato e mai ritirato una fatwa, un editto religioso contro le armi nucleari. E questo ha sempre fatto sì che anche i militari più aggressivi parlassero con molta attenzione di questi argomenti. Adesso però fanno coming out. I comandanti escono allo scoperto e parlano liberamente della possibilità di un cambiamento drastico nella dottrina nucleare iraniana".
È proprio una novità?
"Il contesto attuale è molto importante. L'attacco di Israele all'Iran ha chiaramente dimostrato che la deterrenza regionale e le capacità militari convenzionali della Repubblica islamica sono insufficienti. Si tratta di proteggere la patria. Si è visto che l’Iran rimane estremamente vulnerabile agli attacchi esterni. Oggi ci sono voci molto più forti all'interno dei circoli decisionali iraniani sulla necessità di considerare realisticamente le armi nucleari come un’alternativa alle armi convenzionali".
Una volta almeno c’era un trattato internazionale che impediva all’Iran anche di pensarci.
"E proprio il fatto che quel trattato non c’è più e che l’Iran attualmente non veda alcuna opzione per utilizzare le sue capacità nucleari come leva al tavolo di negoziati per uscire dalle sanzioni statunitensi, ovvero il fatto che non esista una via d’uscita diplomatica, rende ancora più realistica la possibilità di questo tipo di cambiamento in senso militare della prospettiva dell’Iran sulle sue capacità nucleari".
Prima dello scambio di rappresaglie tra Iran e Israele, il comportamento di Israele a Gaza aveva già contribuito al cambiamento dei calcoli di Teheran sul nucleare?
"Assolutamente sì. La guerra a Gaza ha spinto l’Iran a considerare le sue capacità nucleari come deterrente definitivo".
Quanto tempo ci metterebbe l’Iran a costruirsi armi atomiche?
"Non si è mai stati così vicini. Basterebbero circa sei giorni per arricchire abbastanza uranio per costruire una singola arma nucleare. Poi, ci vorrebbero dai sei ai dodici mesi la costruzione dell’arma stessa. La cosa importante, e relativamente nuova, è che il trasferimento dell’uranio arricchito alla fabbrica dell’ordigno sarebbe pressoché certo e immediato. Perché non c’è più l’impiccio degli ispettori dell’Onu. Che ovviamente decreterebbero la fine della partita, se scoprissero che il materiale fissile prodotto è di livello militare. Ma l’Aiea (che dell’Onu fa parte, ndr) non effettua più i controlli rigorosi del passato. Quindi Teheran, per la prima volta negli ultimi vent’anni, ovvero da quando scoppiò la crisi internazionale sul suo programma nucleare, ha la possibilità di lanciarsi verso l’arricchimento di uranio e la costruzione di armi nucleari senza passaggi intermedi che fermerebbero il processo".
L’Iran è più debole o più forte, in seguito alla guerra a Gaza e poi agli attacchi reciproci che hanno “riscaldato” la guerra fredda con Israele? Abbiamo visto manifestazioni contro Israele e a favore di Hamas, gruppo dall’Iran sostenuto, anche in Paesi arabi ostili alla Repubblica islamica, come la Giordania…
"È un mix. Sul fronte del soft power, l’Iran ha ottenuto alcuni vantaggi. Ma dal lato dell’hard power, ha subito solo battute d’arresto. Perché sebbene l'attacco a Israele abbia dimostrato la volontà dell'Iran di correre rischi importanti, ha anche reso evidente lo squilibrio in termini di capacità militari convenzionali con lo Stato ebraico e i suoi alleati".
Ma l’Iran resta il colosso dell’area mediorientale. Il Paese più importante e più anti-Usa, appoggiato dalla Russia e dalla Cina. Questo non conta?
"Sul piano regionale, l’Iran ha importanti capacità. Ma ancora una volta, queste capacità si sono rivelate insufficienti per dissuadere Israele dall’oltrepassare le linee rosse. Il guaio maggiore è che sebbene entrambe le parti abbiano provato a stabilire nuove regole del gioco, ancora non si sa dove siano le linee rosse attuali e future. E in questa ambiguità c’è molto rischio di errori di calcolo da entrambe le parti".
Questo per la politica internazionale. E all’interno? Il Paese può definirsi stabile?
"Il vero tallone d'Achille dell’Iran è proprio nei suoi problemi interni. Nella perdita di legittimità del regime e nella difficilissima situazione economica di cui soffre il Paese".
Sono probabili nuove proteste? Molti attivisti della diaspora iraniana ritengono che la possibilità di un cambiamento di regime non sia più solo un pio desiderio…
"La comunità iraniana in esilio è su posizioni simili a quelle della comunità irachena in esilio prima dell'invasione americana nel 2003. Nel senso che l’odio di queste persone per il regime è tale che sono disposte a sacrificare il Paese, pur di sbarazzarsi del regime. Ma la realtà è che qualsiasi tipo di cambiamento dovrebbe provenire dall’interno dell’Iran. Non certo dall’esterno. Qualsiasi cambio di regime imposto dall’esterno in quella parte del mondo finisce sempre nel dolore".