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Libia, perché l’avanzata di Haftar su Misurata è un pericolo per l’Italia

Le truppe del generale Khalifa Haftar affermano di essere in marcia verso Misurata, terza città della Libia e punto strategico per tutto il Mediterraneo. Se anche Misurata dovesse cadere nel caos la situazione in Libia, già di per sé estremamente precaria, potrebbe peggiorare ulteriormente. E anche l’Italia ne pagherebbe le conseguenze. Vediamo perché.
A cura di Annalisa Girardi
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Continua a regnare il caos in Libia. Il generale Khalifa Haftar, che da nove mesi ormai assedia Tripoli e i territori circostanti alla capitale, dove è instaurato il Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj riconosciuto dalla comunità internazionale, ha affermato di aver conquistato Sirte, importante città portuale e luogo di nascita del dittatore Muammar Gheddafi. Le forze del generale Haftar hanno rivendicato il controllo dell'aeroporto e di buona parte della città. E ora affermano di essere in marcia verso Misurata, terza città della Libia dopo Tripoli e Bengasi e, come vedremo, punto strategico per tutto il Mediterraneo che corre ora il rischio di diventare un vero e proprio disastro anche per l'Italia.

Lev Dengov, capo del gruppo di contatto russo, avrebbe tuttavia smentito la notizia della presa di Sirte, affermando che la città sarebbe già stata riconquistata dalle forze governative: alcune zone sarebbero state occupate dai miliziani di Haftar solo grazie a una ritirata strategica delle forze di Misurata, che controllavano la città, in seguito al cambio di schieramento di una brigata. "Al momento Sirte è di nuovo sotto il controllo delle forze di Fayez al-Sarraj, che hanno fatto dozzine di prigionieri di guerra, sequestrato venti mezzi e ucciso cinquanta nemici", ha dichiarato Dengov.

Non si può ancora dire con certezza quale sia la situazione al momento a Sirte: ciò che appare però chiaro è che il conflitto civile libico si sta inasprendo e complicando sempre più, con l'intervento di nuovi attori e l'apertura di nuovi fronti. In questo senso, la caduta di Misurata nel disordine, potrebbe peggiorare una situazione già di per sé estremamente precaria. E anche l'Italia ne pagherebbe le conseguenze.

La strategia italiana: qual è il piano di Di Maio

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha partecipato ieri a un vertice straordinario a Bruxelles dove si è riunito con i suoi omologhi di Francia, Germania e Regno Unito, che insieme all'Alto rappresentante per le politiche Ue, Josep Borrell, hanno fatto il punto della situazione sulla Libia. Una questione definita prioritaria dal leader pentastellato, che ha poi scritto su Facebook: "Quella in corso è una guerra per procura, dobbiamo essere franchi e parlarci chiaro, puntando al dialogo e coinvolgendo tutti. È quello che stiamo facendo come governo".

Di Maio ha nuovamente escluso qualsiasi soluzione militare alla crisi in corso, ricordando come interventi di questo tipo in passato non abbiano fatto altro che peggiorare la situazione: "Lo ripetiamo: non esistono soluzioni militari alla crisi in corso. Ricordiamo bene gli errori del passato, in particolare l’intervento Nato del 2011. Certi errori non si possono più ripetere. Non ce lo possiamo permettere come Italia e non ce lo possiamo permettere come Europa. Serve subito un cessate il fuoco".

Qual è allora la strategia di Di Maio? Il ministro degli Esteri continua a ripetere come l'Unione europea debba "parlare con una voce sola" e portare avanti un "lavoro coeso", ma non è chiaro il piano strategico che verrà intrapreso. In un'intervista al Fatto Quotidiano, Di Maio ha affermato: "In Libia è in corso una guerra, con interferenze esterne. L'obiettivo dell'Italia è ricondurre tutti gli attori che hanno influenza su questo scenario, dalla Turchia alla Russia, fino all'Egitto e agli Stati Uniti". E avverte: "Qui se la guerra continua i rischi saranno ben altri, con la proliferazione di cellule terroristiche a pochi chilometri dalle nostre coste".

"L’Ue non può restare immobile, l’Ue non può mostrarsi divisa ma deve parlare con una sola voce. E a proposito di quanto riportato da alcuni organi di stampa, in sede europea non si è mai parlato di riattivare Sophia, al contrario. Pensiamo invece che servano misure serie per attivare e soprattutto far rispettare un embargo complessivo via terra, via aerea e via mare nel Mediterraneo. Bisogna smetterla di vendere armi, bisogna fermare ogni interferenza esterna in Libia", ha aggiunto oggi Di Maio tramite le sue pagine social.

Perché Misurata è importante per l'Italia

Ieri, da Bruxelles, Di Maio aveva già parlato del pericolo terrorismo per l'Italia. Ma, come sottolineato dal ministro degli Esteri, non è l'unico fattore di cui Roma dovrebbe preoccuparsi. L'instabilità e le condizioni di sicurezza sempre più precarie, infatti, non fanno altro che favorire l'azione dei trafficanti di umani, dando il via libera all'organizzazione di flussi di immigrazione clandestina da parte degli scafisti. Questo vale specialmente per la città portuale di Misurata, che ospita mezzo milione di abitanti e uno dei più grandi centri di detenzione del Paese, chiuso lo scorso 14 ottobre a causa delle condizioni disumane che vi regnavano.

Anche con la chiusura del centro, tuttavia, Misurata è rimasta uno dei principali luoghi di partenza dei migranti che attraversano la Libia e cercano di attraversare il Mediterraneo: se la città, ora nel mirino di Haftar, dovesse cadere in mano alle truppe dell'uomo forte della Cirenaica, il caos che ne deriverebbe non farebbe altro che allentare il piano di contrasto ai trafficanti di uomini. Risultato? Partenze incontrollate dalla Libia, gestite da scafisti che lucrano sulla pelle dei migranti, e impossibilità per l'Unione europea, ma per l'Italia in primis, di venire a patti con le autorità locali nella gestione dei fenomeni migratori. In altre parole, un via libera senza condizioni alle milizie che gestiscono la rotta del Mediterraneo centrale.

Misurata è anche chiamata la ‘Sparta libica', proprio per il valore delle sue milizie. Non a caso, sono stati proprio i miliziani di Misurata a entrare a Sirte nel 2011 per uccidere il colonnello Gheddafi, per poi riportarlo nella loro città ed esporne il corpo in una cella frigo nel mercato centrale per giorni. E sono stati ancora loro, nel 2016, a combattere lo Stato Islamico nella Tripolitania. In queste occasioni hanno agito rappresentando il Governo di accordo nazionale di al-Serraj: ma ora le divisioni e gli scontri interni tra le fazioni hanno cambiato le carte in tavola, e anche a Misurata c'è chi prende le distanze dalle autorità della capitale. Alcuni capi temono di perdere il peso fondamentale che ora ricoprono una volta terminato il conflitto, mentre ora le milizie di Misurata risultano avere un peso determinante nei nuovi equilibri (se così possono essere chiamati) del Paese.

La città potrebbe quindi rivelarsi un ago della bilancia importante per il futuro del Paese, e di conseguenza tutti gli attori implicati dovrebbero tenere conto dei rischi che scaturirebbero se Misurata cadesse nel caos. In particolare l'Italia, che nella città ha un contingente da centinaia di uomini e un ospedale militare.

Gli interessi italiani in Libia

La questione migratoria rappresenta quindi un'incognita importante per l'Italia, che diventa sempre più esplicita con l'avanzata di Haftar verso Misurata. L'assenza di un controllo sul territorio, come abbiamo visto, non farebbe che agevolare il lavoro criminale dei trafficanti di umani, con risvolti negativi anche per Roma e i suoi tentativi di contenere gli sbarchi: la mancanza di un potere unico e riconosciuto trasversalmente, inoltre, renderebbe impossibile per l'Italia lavorare con la Guardia costiera libica nella gestione dei flussi migratori. Ma questo non è l'unico problema che si presenta per il nostro Paese in relazione alla questione libica.

Infatti, in quanto ex potenza coloniale, l'Italia ha anche altri interessi sul territorio. In Libia infatti l'Eni, multinazionale italiana che nel 2018 è stata classificata come ottavo gruppo petrolifero mondiale per giro d'affari, conduce "attività  nell’offshore mediterraneo di fronte a Tripoli e nel deserto libico per una superficie complessiva sviluppata e non sviluppata di 26.636 chilometri quadrati", e sempre nel 2018 "la produzione in quota Eni è stata di 302 mila boe/giorno".  La produzione libica dell'Eni "vale circa il 15% della produzione del gruppo italiano. Circa un terzo del gas naturale prodotto dal gruppo è libico. E non è comunque poco per un colosso che fattura 77 miliardi". E senza dimenticare il gasdotto Greenstream che dai giacimenti di Bahr Essalam e Wafa trasporta il gas in Sicilia.

Ma non solo petrolio. In quanto ex colonia, l'Italia ha anche dato via a moltissimi progetti infrastrutturali in Libia, in cui sono implicate diverse aziende italiane che però, al mancare delle condizioni di sicurezza non possono sbloccare i lavori, subendo danni economici non indifferenti. Inoltre, proprio per il suo passato e per la sua posizione geografica, l'Italia deve esercitare un ruolo protagonista nel Mediterraneo. Avere un peso importante nella soluzione libica garantirebbe a Roma di rafforzare il suo ruolo nella regione, in un momento in cui altri attori cercano di farsi spazio.

I nuovi attori in campo: il quadro geopolitico

La Turchia, infatti, non è intenzionata a farsi da parte, ma rivendica invece il suo ruolo di potenza regionale. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato, una volta ricevuto il via libera dal Parlamento, di essere prossimo a inviare soldati turchi in Libia a sostegno dell'esercito di al-Sarraj. Una decisione che ha suscitato le reazioni dell'Unione europea, la quale ha condannato ogni interferenza esterna nel conflitto libico. Ankara si è difesa affermando la necessità di "proteggere gli interessi della Turchia nel Mediterraneo, di prevenire il transito dei migranti irregolari, d'impedire alle organizzazioni terroristiche e ai gruppi armati di proliferare e di apportare un aiuto umanitario al popolo libico".

La Turchia, tuttavia, nasconde altri obiettivi, primo fra i quali quello di rendere l'Unione europea e gli Stati Uniti dei meri spettatori, mentre accresce il suo potere d'influenza nella regione. In questo modo Ankara vuole sottolineare l'inconsistenza della strategia delle Nazioni Unite, andando a occupare il vuoto diplomatico lasciato dai Paesi occidentali, che ancora una volta si dimostrano incapaci di far fronte a un'emergenza che si trova sotto i loro occhi. Il tutto mentre nuovi Paesi si fanno spazio tra i protagonisti a livello globale.

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