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Le vite sospese di Katsika, il “campo profughi peggiore di tutta la Grecia”

Lo scorso 18 marzo un vecchio aeroporto militare è diventato un accampamento per migranti in attesa di presentare la richiesta d’asilo. Silvia, volontaria di un progetto umanitario, ci ha raccontato la difficoltà di vivere da sei mesi all’interno di un campo che è “una distesa di sassi appuntiti”, con la paura dell’inverno sempre più vicino e senza sapere cosa sarà del proprio futuro.
A cura di Claudia Torrisi
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"Cos'è Katsika? Potremmo dire che è una distesa infinita di sassi, su cui sono state montate delle tende dove oggi dormono circa 540 persone che non hanno idea di cosa sarà di loro". Così Silvia, una volontaria, descrive quello che è stato definito "il campo profughi peggiore di tutta la Grecia": un vecchio aeroporto militare vicino la città di Ioannina, a pochi chilometri con il confine con l'Albania, che lo scorso 18 marzo è diventato un improvvisato accampamento, gestito dagli stessi soldati. "Quando sono arrivata la prima volta a Katsika – racconta Silvia – il campo era stato aperto da pochissimi giorni e la situazione era tragica: nelle tende c'erano più di 1300 persone, i militari non erano in grado di gestire l'emergenza, i campi non erano attrezzati e i problemi principali erano i bisogni primari: fame, sete, scarpe per camminare sui sassi, latte per i bambini, materassi per tutte le tende per evitare di dormire sulle pietre, acqua calda".

Oggi la situazione è leggermente migliorata e "le persone si sono ridotte di molto, ce ne sono circa 540. Una parte è stata sistemata in un edificio a una decina di chilometri da Katsika perché ci sono stati dei conflitti di tipo culturale, religioso o etnico". Dopo quattro mesi, spiega la volontaria, "grazie alla presenza di piccole Ong, soprattutto spagnole, le necessità primarie risultano coperte. Il problema è che la vita non è sostenibile in un campo come quello, soprattutto in previsione dell'inverno, che inizia a ottobre è freddissimo e molto piovoso. Non si può pensare di tenere le persone in una tenda di tela".

Nel campo ci sono per la maggior parte siriani – circa l'80% dei presenti -, poi siro-palestinesi, iracheni e afghani. Sono tutti arrivati dalla Turchia, a piedi o facendo qualche pezzo di strada in bus, e hanno raggiunto le isole greche – soprattutto Chios e Lesbo – con delle imbarcazioni intorno ai primi di marzo. Soccorsi dai "rescue teams" che pattugliano le coste tutta la notte, sono rimasti lì fino alla firma dell'accordo tra Unione europea e Turchia – lo scorso 20 marzo – che prevede che coloro che approdano in terra greca dopo quella data vengano rimandati indietro al paese d'origine. Per fare una distinzione tra chi era arrivato prima o dopo l'accordo, i campi nelle isole sono stati evacuati e le persone che si trovavano all'interno sono state spostate in altre tendopoli sulla terraferma, tra cui quella di Katsika. "Le persone che si trovano lì sono arrivate in Grecia prima dell'accordo – spiega Silvia – quindi teoricamente hanno diritto di chiedere asilo. Ma non l'hanno ancora fatto. E non perché non vogliano, ma perché la procedura è una specie di mostro di burocrazia". Anche chi ha fatto domanda ha una lunga attesa davanti a sé: all'ufficio preposto si accede solo via Skype, molti non hanno una connessione, quelli che ce l’hanno non riescono comunque ad accedere perché c’è solo un numero e serve a più di 60.00 persone. Secondo Amnesty International, su 66.400 richieste, al 12 aprile ne sono state processate 615.

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Il problema a Katskika è proprio questo: le 540 persone che soggiornano nel campo vagano come dei fantasmi, senza avere la minima idea di quale sarà il loro destino. "E perdono un sacco di tempo", racconta Silvia, che porta l'esempio delle scuole: "Con la pre-registration i bambini hanno diritto a frequentare gli istituti pubblici. Il punto è che le scuole sono in greco. Nessuna di queste persone vuole restare in Grecia, quindi non si capisce ancora bene che cosa faranno questi bambini: se andranno veramente a scuola e dovranno fare un anno per imparare il greco che non servirà a loro assolutamente a nulla, oppure se continueranno a frequentare la scuolina del campo messa su dai volontari, che ovviamente non è riconosciuta come anno scolastico. Insomma, questi ragazzini sono destinati a perdere sicuramente un paio d'anni di scuola". Questa totale incertezza ha fatto nascere qualche giorno fa una manifestazione spontanea dei profughi, che hanno chiesto risposte concrete sul loro futuro, in previsione anche dell'inverno sempre più vicino.

Con il passare del tempo a preoccupare sempre di più i volontari è la situazione psicologica del campo. "Quando queste persone sono arrivate – racconta Silvia – erano impaurite, arrabbiate, nervose ma reattive. Adesso aleggia la depressione. Ci sono tante professionalità come medici, ingegneri, archeologi, professori, sbattuti lì senza sapere quanto tempo dovranno restare. Ci sono uomini che passano la giornata chiusi nelle tende, che piangono e dicono di voler tornare in Siria. Ecco, una cosa che ho sentito più volte è questa: molta gente vuole fare rientro in Siria perché almeno lì c'è la guerra e si muore una volta sola. Qui a Katsika si muore ogni giorno".

Per questo motivo Silvia e un gruppo di amici hanno dato vita a Torino al progetto Aiutiamo Katsika, nato dopo i primi viaggi a marzo nel campo per aiutare i migranti soprattutto psicologicamente. "Oramai arrivano tantissime donazioni di beni di prima necessità, noi volevamo contribuire in altro modo. Quest'estate abbiamo organizzato alcuni eventi a Torino per raccogliere fondi, che ci hanno fruttato circa 10 mila euro. Non una cifra enorme, ma in quasi tre mesi è stato un successo", racconta.

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Questi soldi sono stati destinati per metà all'affitto per un po' di mesi di un paio di appartamenti vicino al campo dove far alloggiare le cosiddette vulnerable people, coloro che in tenda non ci possono stare. Ad esempio le donne incinte agli ultimi mesi prima del parto, che con i sassi appuntiti del campo rischiano di non riuscire neanche a camminare. Un migliaio di euro, invece, sono stati usati rifornire la biblioteca che c'è nel campo, aggiungendo ai libri in inglese dei testi in arabo, in curdo e in farsi. I rimanenti 4 mila euro, infine, hanno finanziato una gita al mare per i profughi. "Sembra una cosa da niente in confronto ai beni di prima necessità, ma non è così – dice Silvia – Ci sono tanti volontari nel campo, però nessuno pensa al benessere psichico. E invece è un problema che bisognerà affrontare, almeno finché non si vedrà una fine vicina di questa cosa".

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