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“Lasciatemi morire con la mia famiglia”: la storia di Abbas, rifugiato di Gaza in Cisgiordania

Il racconto di Abbas, profugo di Gaza in Cisgiordania, al team di Medici senza Frontiere a Nablus: “Mia moglie e i miei quattro figli piccoli sono ancora nella Striscia sotto le bombe di Israele. Uno di loro mi ha chiesto di tornare lì e morire con loro. È terribile”.
A cura di Ida Artiaco
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Abbas, nome di fantasia per motivi di privacy, è uno dei seimila palestinesi di Gaza che lavoravano come pendolari in Israele e che dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre scorso è rifugiato in Cisgiordania, mentre la sua famiglia è rimasta nella Striscia. A Nablus, una delle città palestinesi più grandi, è paziente del team di Medici senza frontiere, a cui ha raccontato quanto sia difficile stare lontano dalla moglie e dai figli, che si trovano a più di 100 chilometri di distanza e sotto le bombe di Tel Aviv.

La sua è una delle tante storie di sfollati palestinesi in Cisgiordania. Come altri, il suo unico obiettivo quotidiano è quello di poter parlare con la sua famiglia. "Sono tutti a Gaza, sparsi tra il nord, e Khan Yunis e Rafah nel Sud. Mia moglie e i miei figli vivono in una tenda: sono già stati sfollati quattro volte dall’inizio della guerra. A volte dormono per strada, nelle moschee o in edifici abbandonati. I miei quattro bambini hanno tra i cinque e i quattordici anni, potete immaginare?", ha raccontato Abbas.

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Aggiungendo: "Ogni mattina all'alba cerco di contattarli telefonicamente per sapere se sono sopravvissuti alla notte. Talvolta, le comunicazioni vengono interrotte e devo aspettare giorni per avere loro notizie".

Prima della guerra, Abbas era quello che viene chiamato un "lavoratore di Gaza": ogni mese attraversava il confine dal nord della Striscia, dove si trova la sua casa, per andare a lavorare in una ferriera per qualche settimana e ritornare per una pausa di tre giorni. Da quando suo padre è morto, essendo il membro più anziano, è anche responsabile del resto della sua famiglia, compresi i suoi fratelli e sorelle.

Il 7 ottobre, quando Hamas ha lanciato il suo attacco in Israele, Abbas era al lavoro. Il giorno successivo, i soldati israeliani si sono presentati nella fabbrica e hanno iniziato a molestare i lavoratori palestinesi, minacciando di sparargli se non fossero fuggiti in Cisgiordania. E Abbas così ha fatto.

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Quando è passato al checkpoint israeliano, i soldati hanno preso i suoi soldi, ma non il telefono. "Per questo mi considero fortunato. Altri sono stati arrestati, picchiati o addirittura fatti sparire – ha spiegato Abbas -. Non ho famiglia qui, così ho trovato rifugio in una comunità con altri lavoratori. Viviamo in una situazione terribile, dormiamo per terra senza materassi, coperte o riscaldamento, ma non è niente rispetto alle orribili condizioni di Gaza".

Nella zona di Nablus, Abbas ha incontrato un team di assistenti sociali di Medici senza frontiere che lo hanno indirizzato ai colleghi che offrono consulenze psicologiche come parte di un programma di salute mentale che opera da oltre due decenni, ramificandosi nel tempo nelle vicine città di Qalqiliya e Tubas. Fino alla fine di novembre, psicologi e psichiatri che lavorano al programma hanno offerto oltre 2.600 consulenze nel 2023.

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"Sto cercando disperatamente di andare a Gaza e raggiungere la mia famiglia, ma è impossibile – ha raccontato al team di Msf e a Fanpage.it -. Le autorità israeliane hanno detto che avrebbero permesso ai lavoratori di Gaza di ritornare a casa, ma coloro che hanno tentato sono stati arrestati, derubati e picchiati. Se vengo arrestato, perderò ogni contatto con la mia famiglia. L'altro giorno mio figlio di 5 anni mi ha chiesto perché li sto facendo morire di fame. Mi ha detto di tornare lì e di morire con loro come succede ad altri bambini. È terribile, bisogna fermare questa sofferenza".

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