La tecnologia uccide il lavoro? E’ la bufala, o meglio la cantonata, più ricorrente dai primi decenni del diciannovesimo secolo: la tecnologia è uno strumento che occorre imparare ad utilizzare e chi meglio vi riesce più riesce ad ampliare le proprie possibilità, ai danni di chi non vuole o non sa cambiare.
Intendiamoci: l’innovazione tecnologica non è mai un processo lineare e le sue conseguenze non sono sempre e solo positive, la storia ha visto accelerazioni in avanti, brusche frenate e tentativi di restaurazione sin dai tempi degli antichi imperi, per non dire del fatto che alcune innovazioni possono arrecare con la stessa facilità morte e distruzione piuttosto che benessere (si pensi all'energia atomica). Ma la sostanza non cambia: se non sapete sfruttare l’innovazione finirete spiazzati e forse spazzati via, prima o poi.
Prendete la “tempesta Trump” che in questi giorni ha investito i mercati, con una volatilità schizzata alla stelle ed indici che a seconda delle ore guadagnavano o perdevano punti percentuali. Nessuno sembra aver previsto la vittoria di Donald Trump, perché, scrivono molti giornalisti, semplicemente è mancato un collegamento col popolo americano, ci si è fermati alle grandi città delle due coste, non si sono seguiti i meeting elettorali dell’immobiliarista, non si sono osservate con sufficienza attenzione le relazioni che ha saputo rapidamente costruire o rafforzare con questa o quella lobby.
Vero, ma questo modo di raccontare la storia, che si accompagna con l’altra mezza bufala dei sondaggi “che non servono a nulla” o che sono esclusivamente piegati agli interessi di parte (cosa che pure pare essere almeno in parte successo in questo e in altre circostanze, beninteso), è un modo di leggere la vicenda tipico di chi è rimasto attaccato al modo di fare una professione (quella del giornalista o dell’analista) che sfrutta un approccio “1.0”, basato sul contatto diretto, sul guardarsi negli occhi, sul conoscere il tuo interlocutore.
Eppure c’è stato chi sia la vittoria di Donald Trump, sia della Brexit al referendum britannico del 23 giugno (altra “sorpresa” subita da analisti e giornalisti di mezzo mondo) l’aveva correttamente prevista e l’aveva pure scritto, nero su bianco, alla vigilia di entrambe le consultazioni.
A riuscire nell’impresa è stata una società londinese specializzata in strategica e financial advisory, Kaufmann & Partners, che al di là della bravura dei suoi analisti ha saputo sfruttare la tecnologia meglio di tutti gli altri, nel caso specifico il software di “cognitive computing” Cogito, sviluppato dalla italianissima (è stata fondata a Modena nel 1989 da Paolo Lombardi, Stefano Spaggiari e Marco Varone) Expert System.
Società che, tra l’altro, è quotata sul mercato Aim Italia da un paio d’anni e che negli ultimi tre mesi ha saputo guadagnare un 8% (contro un calo dell’1% nello stesso periodo dell’intero listino azionario di Milano), cosa che forse avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualche commentatore e suscitare la domanda: cos’è che fa recuperare terreno al titolo?
Scoprendo, putacaso, che l’ex “garage company” emiliana divenuta nel frattempo una tipica “multinazionale tascabile” di quelle di cui è ricca l’Italia (con oltre 230 dipendenti, 8 uffici, laboratori e centri distribuiti in 7 diversi paesi e clienti del calibro di Eni, Novartis, Coca Cola o Thomson Reuters solo per citarne alcuni). Peccato che trattandosi di un titolo minore la copertura da parte di giornalisti e analisti sia stata evidentemente insufficiente.
Morale della favola: la tecnologia è uno strumento che può fare la fortuna sia di chi sa svilupparla, sia di chi sa utilizzarla al meglio. Lasciando tutti gli altri a brancolare nel buio, salvo magari diventare tutti esperti analisti anche di “big data” e di analisi semantica, rigorosamente il giorno dopo.