La vittoria di Donald Trump è una pessima notizia per la lotta ai cambiamenti climatici
Partiamo da un dato quasi certo: le cose non potranno che peggiorare. Quando sono arrivati i risultati, la gran parte degli scienziati americani (e globali) ha avvertito un brivido freddo lungo la schiena. Donald Trump ha sempre detto chiaramente che risolvere i problemi ecologici della sua nazione e del Pianeta non è una priorità. Non è chiaro se sia convinto dell’esistenza e dell’origine antropica del riscaldamento globale – in passato ha espresso opinioni contrastanti – e in fondo non è così importante saperlo. Con un presidente che è già stato in carica contano i fatti, e nel suo caso sono eloquenti. Durante il primo mandato Trump ha abbandoanato gli Accordi di Parigi – la più importante intesa globale sul contrasto alla crisi climatica, firmata nella capitale francese nel 2015. Nello studio ovale ha abrato più di 100 leggi ambientali volute dai suoi predecessori. Sotto la mannaia trumpiana sono tate cancellate norme che proteggevano la salubrità dell’acqua, che vietavano l'uso di sostanze inquinanti, che evitavano l’abbattimento di animali selvatici a rischio d’estinzione. Durante la sua prima presidenza è stata ridotta l’estensione dei parchi naturali – per lasciare più spazio alle trivelle petrolifere – e ha ridotto ai minimi storici il finanziamento all’EPA, l’ente per la protezione ambientale. Progetti inquinanti e contestatissimi dalle comunità locali come gli oleodotti Keystone XXL e Dakota Access sono stati completati durante il suo mandato.
Il curriculum, insomma, è nero petrolio. E non c’è ragione di pensare che migliori in questa seconda presidenza. Trump negli ultimi se l'è presa più volte con le pale eoliche – per lui uccidono uccelli e balene – ma, in compenso, adora il petrolio. «Drill baby, drill», «trivella baby, trivella» è un vecchio slogan dell’ex governatrice repubblicana dell’Alaska e candidata alla vicepresidenza Sarah Palin che il leader appena eletto ha usato moltissimo in questa campagna elettorale. Il riferimento, ovviamente, è all’estrazione di idrocarburi. Dal punto di vista della politica estera, questa volta Trump potrebbe non accontentarsi di uscire dagli Accordi di Parigi. In campagna elettorale ha detto di voler abbandonare l’Unfccc, l’intera cornice su cui si basa la diplomazia climatica guidata dalle Nazioni Unite. Si è parlato molto di Project 2025, il piano elaborato dal think-tank conservatore Heritage Foundation e da tanti considerato il possibile programma del nuovo governo. In questo corposo documento si propone di «terminare la guerra contro i combustibili fossili» e sostituire gli obiettivi di riduzione delle emissioni con obiettivi di «sicurezza energetica». L’attivismo climatico si cita solo nella sezione relativa alla politica interna, dove si pianifica di reprimerlo più duramente. Le aziende dell’Oil&Gas hanno finanziato lautamente la campagna di Donald Trump, e ora a lui spetterà il compito di ricambiare.
Kamala Harris: una sfidante debole sul clima
Certo è che Kamala Harris non ha fatto molto per mobilitare i suoi sostenitori su questo tema. Scienziati e attivisti la hanno sostenuta dall’inizio – tra gli altri, ci sono stati gli endorsement di Greenpeace, Sunrise Movement, persino della rivista Nature – ma lei ha parlato pochissimo di clima e ambiente. Anzi, nel corso del dibattito contro lo sfidante repubblicano ha rivendicato come durante la presidenza Biden si sia raggiunto il picco delle estrazioni di idrocarburi negli USA. Ed è vero: gli Stati Uniti sotto i democratici hanno esportato più petrolio di quanto non avvenisse sotto i repubblicani. Kamala Harris voleva tranquillizzare il voto conservatore: ha finito, forse, col perdere un po’ di elettorato progressista. L’amministrazione uscente si è resa protagonista del più importante piano di investimenti in energia e infrastrutture verdi – rappresentato da Infrastructure Act e Inflation Reduction Act – ma ha anche permesso un’espansione dei fossili senza precedenti. Harris ha scelto di non rompere questa ambiguità, inseguendo i repubblicani sul loro campo.
La fine della transizione statunitense?
Oggi è un giorno di preoccupazione per l’ecologismo statunitense. La vittoria di Donald Trump non significa necessariamente che non vedremo più segni di transizione negli States. Esiste ormai un’industria dell’energia e delle infrastrutture verdi – rinnovabili, macchine elettriche, treni – che, pur minoritaria rispetto ai giganti dell’economia tradizionale, cercherà di tutelarsi e prosperare. Ha fatto discutere poi l’enorme appoggio dato a Trump da Elon Musk, l’imprenditore il cui business principale consiste nella vendita di auto ecologiche targate Tesla. Pur ormai su posizioni ultraconservatori, in molti si aspettano che convincerà l’amico alla Casa Bianca a non punire eccessivamente il suo settore di riferimento. Anche la complessità istituzionale contribuisce a rendere la situazione sfumata. Gli USA sono una nazione federale, e i singoli Stati hanno un discreto margine di scelta su energia, trasporti, agroalimentare. Quando Washington abbandonò gli Accordi di Parigi, la California annunciò che avrebbe proseguito a rispettarne gli obiettivi come nulla fosse. Persino i diplomatici specializzati in accordi sul clima, fa sapere Bloomberg, starebbero preparando piani per proseguire il lavoro negoziale anche sotto la presidenza Trump.
Ma nulla di tutto questo è sufficiente a lasciare speranzosa la comunità degli esperti. Un grafico della testata specializzata Carbon Brief riassume perfettamente la situazione. Una linea rossa mostra come le emissioni diminuiranno a malapena sotto la presidenza Trump, stando a quanto ci è dato sapere. Una seconda linea più bassa, quella blu, mostra come – secondo le stime – un’amministrazione democratica avrebbe salvato 4.000 miliardi di tonnellate di CO2. In quanto a ciò che sarebbe realmente necessario, Carbon Brief lo indica con una linea gialla – lontanissima dai piani di entrambi i grandi partiti della politica statunitense.