Critical juncture, snodo cruciale. Così Arianna Farinelli, scrittrice italiana che vive a New York descrive questo peculiare momento storico degli Stati Uniti d’America, presi in mezzo tra la pandemia di Coronavirus, una crisi economica devastante e le rivolte sociali degli afro-americani (e non solo) dopo l’assassinio del 44enne George Floyd da parte di quattro agenti di polizia di Minneapolis. Farinelli ha scritto un romanzo, “Gotico Americano” (Bompiani, 2019), che non parla di pandemie e di afro-americani, ma che fornisce il contesto razziale, culturale e identitario per leggere l’America dell’assassinio di George Floyd e della rivolta che ne è seguita.
Come colloca e come racconterebbe a un alieno la storia di George Floyd. Come qualcosa di completamente diverso o come una storia che si ripete sempre uguale?
Il fatto in sé è una replica di cose che abbiamo visto anche negli anni di Obama. Penso a Michael Brown nel Missouri, a Trayvon Martin in Florida o alla storia di Eric Garner, un 44enne padre di sei figli che viveva qui a New York, che nel 2014 come George Floyd disse ai poliziotti che lo strangolavano da dietro che non riusciva a respirare. E poi proprio qualche giorno fa si è avuta notizia di un’altra morte per asfissia di un 30enne afroamericano avvenuta a Seattle lo scorso marzo su cui si sta investigando, ma che sembra presenti dinamiche simili a quelle che hanno portato al decesso di George Floyd. È una storia che si ripete in modo quasi pedissequo, nelle vittime, nei luoghi, persino nelle tecniche: quella di prendere le persone per la gola e poi gettarle a terra premendo sul collo sarebbe proibita dai protocolli, ma molti poliziotti la usano, soprattutto con persone afroamericane.
Tutto uguale, quindi?
Quel che cambia è il momento storico. È quella che qui chiamano critical juncture, un punto di svolta che ha conseguenze future permanenti. Pensiamo alle conseguenze del caso di George Floyd. Ieri i quattro poliziotti che hanno ucciso George Floyd sono stati incriminati per omicidio volontario non premeditato, una cosa che non si vede mai in questi casi, che di solito vengono trattati come omicidi preterintenzionali. E a farlo non è stato il procuratore distrettuale di Minneapolis, ma il procuratore generale del Minnesota. Sono cose senza precedenti: nel caso di Eric Garner i poliziotti erano stati incriminati ma non licenziati. Nel caso di Trayvon Martin erano stati processati, ma assolti. Questa è già una grande differenza.
Perché questo cambiamento?
Perché siamo nel pieno di una pandemia devastante con 100mila morti – una cifra peraltro sottostimata – con 40 milioni di persone che hanno perso il lavoro, col Pil che doveva crescere di tre punti percentuali e invece calerà del 6%. Non bastasse, tra due mesi la situazione diventerà incandescente, perché finiranno i sussidi per la disoccupazione che erano finanziati per pochi mesi e perché avrà termine il blocco degli sfratti. Migliaia, forse milioni di persone si troveranno improvvisamente senza un lavoro, senza sussidi e senza una casa.
Dettaglio non insignificante: gli stati del Sud, quelli con una maggiore presenza afroamericana sembrano quelli più colpiti dalla pandemia. E gli afroamericani sembrano soffrire gli effetti del Coronavirus molto più di altri gruppi etnici…
Attenzione: gli afroamericani si ammalano più dei bianchi non per ragioni genetiche, ma sociali: i redditi molto bassi, condizioni di salute precarie e pre-esistenti all’epidemia, perché molti dl loro sono senza assicurazione sanitaria. E ancora una certa avversione per i medici, essendo stati gli afroamericani soggetti per decenni a terapie di sterilizzazione. In più, vivono in quartieri densamente popolati e in case molto piccole, dove il distanziamento sociale è quasi impossibile. New York è l’esempio perfetto: i quartieri più colpiti dal Coronavirus sono South Bronx e Queens, due dei quartieri più poveri della città. A tutto questo aggiungiamo la ciliegina sulla torta: gli afroamericani fanno lavori più umili e meno tutelati, e sono ovviamente più soggetti a pagare il costo economico della crisi, dal licenziamento allo sfratto.
Tutto questo a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. Che effetto avrà tutto questo sulla sfida tra Trump e Biden?
Nel 1968, dopo l’assassinio di Martin Luther King ci furono grandissime proteste e grandissime tensioni razziali che si saldarono con quelle dei movimenti giovanili contro la guerra nel Vietnam. Dopo tutto questo non arriva un progressista alla Casa Bianca, bensì Richard Nixon, che vince promettendo legge e ordine. Le stesse parole usate dal presidente Trump nella sua conferenza stampa di qualche giorno fa dal Rose Garden della Casa Bianca: “I’m your President of law and order”, ha detto, e ha invocato l’Insurrection Act del 1807 che dà la possibilità al presidente di usare l’esercito contro le insurrezioni. Pugno duro, quindi, nonostante le proteste siano prevalentemente pacifiche e che i governatori di New York, dell’Illinois, del Michigan e della California hanno apertamente contraddetto questa mossa di Trump. Ricordiamo che la sera della conferenza stampa al Rose Garden, è stato usato un elicottero Black Hawk, quelli che si usano nelle guerre, per disperdere la folla volando a bassissima quota. E che il ministro della difesa Mark Esper, che ha criticato Trump per la proposta di usare l’esercito, ha detto che istruirà un’indagine per capire chi ha dato l’autorizzazione a far volare quell’elicottero.
Trump ha tutto da perdere, quindi?
Non è detto. Se le proteste saranno caos, violenze e saccheggi, Trump ne trarrà beneficio in vista delle elezioni perché lui sarà quello che ristabilirà l’ordine. Di fronte a proteste pacifiche e non violente, invece, si parlerà della gestione della pandemia, dei 40 milioni di disoccupati, degli ammortizzatori sociali e degli stimoli fiscali insufficienti. E Trump avrà molta difficoltà a essere rieletto a novembre. Il caos è il miglior alleato di Trump.