La mafia è una jihad o la jihad è una mafia?
Nell’immediatezza della tragedia del Bataclan, Panorama, Libero e Il Giornale annunciano che il Sud Italia non rischia attentati perché l’Isis avrebbe timore delle mafie.
Secondo il settimanale un ex agente dei servizi segreti, dopo aver analizzato gli attentati di Parigi, avrebbe riferito: «Potenziali attentati potrebbero essere portati a segno solo da Napoli in su. Dal capoluogo partenopeo in giù la presenza delle organizzazioni criminali che controllano il territorio non permettono la permeabilità dei terroristi nelle loro zone. Le cellule legate all’estremismo islamico possono solo attraversare quelle zone, ad esempio, la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania ma non è permesso loro di fermarsi. La Camorra, la ‘Ndrangheta e la Mafia possono semmai solo guadagnare dal loro passaggio ma, sanno che la presenza in loco di questi soggetti, potrebbe solo danneggiarli. E viceversa. Anche gli stessi terroristi sanno che il controllo sul territorio esercitato dagli stessi mafiosi, rischierebbe di farli entrare nel mirino degli investigatori».
Addirittura in Francia monta la voce che Riina abbia chiesto di essere scarcerato per mettersi alla guida di un esercito criminale pronto a battersi contro l’Isis. Giubilo e gaudio per i sostenitori in rete del Capo dei Capi. Al di là della bufala, emergono due aspetti interessanti: l’influenza del dominio mafioso nell’immaginario internazionale, come legittimo sostituto del potere statale; la riduzione delle mafie all’unicum di Cosa nostra, condensata nella figura del vecchio capo carismatico, che aveva osato sfidare frontalmente lo Stato adottando una strategia terroristica. Insomma, nel marasma della Rete si esalta la Legge del Taglione virtuale, “Occhio per occhio, dente per dente”, affidando l’esecuzione ad un criminale di pari ferocia.
Perché è stata ritenuta plausibile l’ipotesi che le mafie potessero contrastare l’avanzata dell’Isis? Si tratta di un’associazione d’idee con la quale si prova a spiegare, attraverso una similitudine comprensibile agli italiani e a molti europei, la pericolosa inclusione sociale del terroristi islamici all’interno degli stessi contesti in cui allignano le mafie. Non a caso, quando lo scorso marzo la polizia è andata ad arrestare a Molenbeek – periferia di Bruxelles – Salah Abdeslam, si è scritto che in quel quartiere l’Isis è radicata come una mafia.
La comunità che protegge un criminale nato e cresciuto in quel quartiere, nell’immaginario dei commentatori italiani, ha immediatamente evocato le ribellioni delle fasce sociali marginali collaterali alle mafie. Così è sembrato logico ipotizzare che tra cellule terroristiche e comunità islamiche via sia un rapporto non dissimile da quello tra organizzazioni mafiose e territori di radicamento originario.
In sostanza nei ghetti del nord Europa, dove sono stipate diverse generazioni provenienti dalle vecchie colonie, i giovani, ormai naturalizzati, hanno mutato il sentimento di emarginazione sociale e la mancanza di prospettive occupazionali in una identità “pseudo razziale”, una specie di complesso di superiorità dettato dall’orgoglio della marginalità che ha trovato sponda nella propaganda radicale degli estremisti islamici.
La Globalizzazione ha fatto il resto: ha ridotto ai minimi storici il senso di appartenenza nazionale esaltando la diversità sociale, fagocitata dalla «identità culturale e religiosa» come riscatto collettivo e individuale. La novità è che lo Stato-Nazione non è più in grado di costruire un progetto di crescita collettiva nel verso della coesione sociale (che è anche integrazione civile); questa debolezza ha mutato i punti riferimento identitari dando luogo a “zone franche”, tradizionalmente già inquinate da fenomeni delinquenziali, in cui le origini territoriali e familiari sono più forti di quelle nazionali.
Questa trasformazione riguarda solo il nord Europa? Non è vero che anche nelle nostre città ci sono “zone franche” sottratte al controllo dello Stato? I nostri ghetti non sono Isole urbane e sociali rette da un ordine delinquenziale? Le guerre tra clan mafiosi, per esempio, implicano conseguenze di ordine morale all’interno di una logica di profitto: “bonificare” il territorio, eliminando l’avversario, per controllare il mercato. La competizione economica provoca un’artificiale alterità tra i gruppi. Il conflitto fa emergere il bisogno di costruire una propria identità particolare. La guerra è il mezzo per radicalizzare la diversità, la violenza è il nesso che la giustifica: il disconoscimento dell’Altro come proprio “simile”.
È necessario schiacciare, sottomettere e umiliare il nemico per affermare la propria superiorità. Si innesca, così, un meccanismo di azione e reazione con una catena infinita di omicidi in cui, di volta in volta, l’uno prevale sull’altro. La lotta tra clan è una guerriglia urbana senza regole che non lascia intatto e separato nemmeno il territorio d’appartenenza, anzi i cittadini sono avvinghiati e coinvolti, loro malgrado, nella dimensione della guerra permanente. Uccidere l’avversario, compiere atti bestiali, assassinare gli indifesi è l’evoluzione finale di un percorso che, dalla segregazione è giunto all’etnicizzazione della marginalità scatenando migliaia di focolai urbani in cui gli amici di sempre, da un giorno all’altro, sono diventati nemici da abbattere senza pietà.
Da buoni europei siamo portati a interpretare il mondo secondo le nostre priorità di ex dominatori, ma la Globalizzazione insegna che non esistono fenomeni di emulazione a senso unico. Così mentre diciamo che l’Isis si comporta come le mafie, allo stesso tempo nel rione Sanità si organizza il clan dei “Barbudos” che dal nome pare ispirarsi ai narcotrafficanti sudamericani ma nelle fattezze e nei proclami si richiamano agli jihadisti. Se cercate nella sezione immagini di Google trovate le loro foto con tatuaggi in arabo e italiano che coprono tutto il corpo. Hanno nomi di battaglia che fanno il verso a quello dei miliziani e sui loro profili Facebook scrivono frasi come: «Sono l'ultimo prescelto» oppure «Io sono come l’isis, loro camminano col kalashnikov, io con un semplice coltello, loro sparano in testa alla gente, io gli do una semplice coltellata alla gola…». I principali media nazionali hanno parlato genericamente di «fascinazione dei giovani della camorra per l'immaginario dello Stato Islamico» o di «ammiccamento al fondamentalismo islamico», come «ideale di violenza ed efferatezza».
Molto probabilmente si tratta di una moda passeggera legata all’influenza dei social network (ai quali – come si è visto – partecipano attivamente alla pari dei loro coetanei) che tra articoli, post, video e foto rende facilmente imitabile l’Isis style. Del resto i giovani della camorra sono sempre molto attenti alle mode mediali. Negli anni della faida di Scampia sembravano tutti usciti da un reality o da una trasmissione di Maria De Filippi. Quella era la televisione, oggi Youtube e Facebook propongono nuovi immaginari globali intorno ai quali costruire una strumentale retorica del terrore. In ogni caso scegliere come idolo Abu Bakr al-Baghdadi piuttosto che Scarface è un segno dei tempi e della mescolanza locale/globale che sta mutando la natura delle gerarchie sociali.
L’Europa è spaventata da questo processo per due ordini di motivi: i cittadini delle ex colonie hanno sempre accettato l’identità nazionale dei conquistatori senza mai sviluppare un movimento contro la segregazione razziale (gli scontri nelle banlieues sono sempre stati delle jacquerie urbane mai uno strumento di liberazione); siamo e rimaniamo il continente degli Stati-Nazione che più a lungo ha conservato la sua monoculturalità (le minoranze sono state sempre bene accette a condizione di sottostare al potere dello Stato accogliente).
Se prima in questi quartieri le bande criminali etniche erano un modo per integrarsi nella comunità nazionale, oggi sono un modo per attaccare quella stessa comunità in virtù di un’identità extranazionale divenuta strumento di affermazione individuale (e questo vale anche per i mafiosi italiani che si sentono siciliani, napoletani e calabresi prima che italiani). Questi sono gli esiti europei di una lunga sovraesposizione alle politiche neoliberiste che, con la fine del welfare state, ha distrutto il concetto di società egalitaria costruito nel secondo dopoguerra, liberando gli spirti animali del diritto naturale: ciò che mi sento sono e l’altro, se intralcia il mio cammino, deve essere eliminato.
Provate a trasportare questa affermazione nella logica dei miliziani e comprenderete l’origine della guerra asimmetrica che sta attraversando l’Europa. Qual è il paradosso? L’ideologia neoliberista occidentale, grazie alle quale le mafie – con il narcotraffico – hanno raggiunto lo status di operatori economici internazionali, è all’origine della lotta antioccidentale. In fondo il modello economico dello Stato islamico è quello dello stato “canaglia” che sfrutta economia legale e illegale al fine di finanziare la propria guerra. Qual è l’ulteriore paradosso? Sempre l’ideologia neoliberista è assurta, nel corso degli anni, a religione economica fondamentalista, una forma laica di verità assoluta, che ha eccitato nell’itero globo, svincolato dalla tensione della guerra fredda, tutti gli altri fondamentalismi.
Il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, ha affermato che l'Isis rappresenta un inquietante mix di terrorismo e criminalità organizzata. Lo Stato Islamico non è soltanto quello degli attentati kamikaze ma è anche quello che sfrutta i territori sotto il proprio controllo per attività illecite come il traffico di stupefacenti, il contrabbando di risorse petrolifere e di reperti archeologici o il traffico di esseri umani o ancora un capillare sistema di estorsioni. Si muove, secondo Roberti, come un’associazione mafiosa transnazionale. Anzi, nell’ultimo rapporto della Dna (Direzione nazionale antimafia), si sostiene l’esistenza di una «totale compenetrazione» tra organizzazioni mafiose e terrorismo internazionale: «L’Isis è un’associazione criminale che si è fatta Stato, con un territorio controllato, una popolazione, un ordinamento giuridico e una organizzazione amministrativa. Ma è uno Stato-mafia, perché, col radicalismo ideologico e la violenza terroristica, esprime anche imprenditorialità criminale e dominio territoriale con proiezioni transnazionali: i connotati tipici delle associazioni di tipo mafioso».
Siamo punto e accapo. L’Isis deve per forza somigliare a qualcosa di occidentale per essere compresa altrimenti rimane sfuggente. Per agguantarla allora si passa al gioco di uguaglianze e differenze che aiuta il cittadino comune a comprendere, ma anche a confondere le questioni perché se è vero che alcune caratteristiche sono assimilabili all’agire mafioso è pur vero che le mafie, nonostante la stagione stragista, non hanno mai usato modalità da guerra santa, né organizzato esecuzioni di massa contro intere popolazioni, né lanciato in Rete video di decapitazioni o torture varie, né realizzato attentati indiscriminati in altre nazioni.
C’è tuttavia un elemento, al di là di questa considerazione, che non può essere trascurato perché non riguarda le modalità applicative del terrore ma la psicologia umana. Corrado De Rosa, in un recentissimo e-book intitolato “Nella mente di un jihadista”, accenna un paragone sulla psicologia di mafiosi e miliziani: «L’Isis mescola terrore e azione sociale. Come le mafie, fa proseliti con l’assistenzialismo, si occupa delle famiglie dei kamikaze, proprio come fanno i clan con quelle dei detenuti. I capi del jihad, come i padrini, sono avvolti da un misticismo epico sostenuto dal meccanismo mediatico della sottrazione: meno si vedono, più incutono rispetto».
«Cosa nostra offre identità e modo di essere: il suo mondo è senza incertezze, rigido, monolitico. La realtà s’interpreta secondo i criteri di obbedienza e appartenenza, chi si mette in mostra è visto con sospetto. La camorra, invece, offre immagine e visibilità. Il percorso di affiliazione tra i clan campani si fonda su quello che il sistema garantisce: soldi, potere, donne, successo. Semplificando, all’identità dell’essere mafioso si contrappone un’identità dell’avere del camorrista. Nella mente degli islamisti radicali le due dinamiche coesistono».
«Isis e Cosa nostra sono due totalitarismi. Due mondi sostenuti dall’incrollabile certezza di adesione a un progetto senza esitazioni, in cui il giudizio degli altri si fonda su ciò che si è, non su ciò che si fa. Sono due sistemi in cui si entra se si è presentati da qualcuno, dove chi è diverso è percepito solo come fonte di pericolo e in cui l’appartenenza al gruppo viene prima della realizzazione di se stessi. L’accettazione acritica del dogma, in tutti e due i casi, restituisce un uomo totalmente sottomesso, che esiste solo nella dimensione di fedele e di affiliato, in cui l’Io non è determinato dal suo mondo interiore e si sgretola, nella famiglia o nella tradizione salafita».
Negli anni Novanta la sociologa Renate Siebert e lo storico Giuseppe Carlo Marino avevano definito le mafie come una forma di totalitarismo criminale. De Rosa aggiunge un ulteriore ipotesi: “pensare mafioso” e “pensare jihadista” hanno in comune una psicologia di contrapposizione al “Noi” dello Stato, del sociale, delle regole, della legalità, un “Io”/”Noi” intrusivo, parassitario e populista; un “Io” che tende ad imporsi e non consente l’esistere della diversità altrui, se non come mera strumentalità. L’Altro, se soggetto autonomo non controllabile, è sempre considerato una minaccia.
Piuttosto che paragonare, a corrente alternata, le milizie del Califfato ai narcos e ai mafiosi (a seconda dei casi) sarebbe il caso di comprendere che nel mondo attuale sono diffusi in tutti i contenenti manifestazioni di integralismo criminale che alimentano totalitarismi territoriali e fondamentalismi psicologici. Mafiosi, narcos e jihadisti appartengono tutti alla secolarizzazione della violenza globalizzata in cui si mescolano fattori ideologici, religiosi, etnici, economici, politici e culturali. Il multiculturalismo è anche questo, ovvero il superamento delle criminalità organizzate nazionali, seppure ancora pericolose e operanti, verso una nuova dimensione di integralismo criminale globale.