La globalizzazione dei baby killer: i teenager assassini dal Messico all’Europa
Circa una settimana fa i social media americani hanno gridato allo scandalo per alcune foto pubblicate da “El blog del narco” in cui appaiono teenagers armati fino ai denti. Sono i “testimonial” della nuova campagna di propaganda del Cartello del Golfo. Gli strateghi della comunicazione dei narcos l’hanno chiamata “unmasking” ovvero “desenmascaramiento” che tradotto in italiano significa senza maschera.
Infatti, una delle usanze dei killer messicani è quella di indossare una maschera di morte per agire in anonimato. Un anonimato che, tuttavia, richiama la devozione alla Santa Muerte. Una madonna con il volto di teschio adorata da milioni di fedeli in tutto il Messico, patrona di criminali e delinquenti.
Lo “smascheramento” è un’operazione di svelamento razionale. Il “ci mettiamo la faccia” va in direzione opposta alla segretezza delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Un livello di pubblicità dell’affiliazione che è conseguenza della ritualità celebrativa attuata tramite azioni violente e stratagemmi divulgativi. Ogni Cartello ha la sua retorica, attraverso la quale costruisce e giustifica un’identità sociopatica, fondata su potere, denaro e sopruso, che è parte sostanziale della strategia di comunicazione mirata alla ricerca del consenso.
Una strategia complessa che utilizza la presenza sul territorio rivelando il proprio dominio con segnali di concreta visibilità. Da un lato si affiggono manifesti (narcomantas) sulle facciate di palazzi o di ponti in cui si annunciano azioni militari o si indicano liste di condannati a morte; si espongono corpi decapitati o teste mozzate e impalate; si sostengono attività di interesse pubblico (organizzazione di feste religiose, costruzione di scuole e ospedali, attività sportive e dello spettacolo); si ostenta il lusso (auto di grossa cilindrata, orologi costosissimi, imbarcazioni da sogno, smart-phone di ultima generazione, oggetti d’oro tempestati di diamanti); dall’altro, sfruttando la disintermediazione del web, si impone l’immagine del proprio modo di essere, violenti ma cool, al mondo intero, divenendo, su scala planetaria, un modello di criminalità globalizzata: usano Twitter per comunicare con nemici ed amici; hanno trasformato Youtube in un canale televisivo monotematico su cui si mostrano le immagini delle narcoguerra in real time; impiegano Facebook come uno strumento di social marketing, individuale e collettivo; adoperano Instagram come se fosse un glamour magazine raccontando per immagini la vita quotidiana dei narcovip.
Dunque, il “desenmascaramiento” è un ulteriore passaggio verso una narrazione imperniata sul visibile, ovvero tra ciò che i narcos mettono in scena e ciò che il pubblico percepisce. Viene riprodotta la realtà fisica dei Cartelli per costruire, grazie al potere delle immagini diffuse nella rete, una rappresentazione socialmente e soggettivamente determinata del mondo. Un rappresentazione che, con il passare del tempo, gli spettatori accettano senza stupore considerandola una “normale” raffigurazione del contesto criminale. Il visibile prodotto dai narcos definisce lo spazio di consapevolezza entro cui si muove il pubblico, ovvero la sua capacità di “vedere ciò che può vedere”.
Il web, essendo allo stesso tempo repertorio e produttore di immagini, viene sfruttato non per mostrare il “reale” ma brandelli di una realtà che lo spettatore può accettare e riconoscere. Svolge, quindi, una doppia funzione: sedimenta le immagini esistenti e, contemporaneamente, ne crea delle nuove, ampliando i confini dell’immaginario. Si stabilisce così un rapporto privilegiato con i fruitori dei new media: li rendono partecipi, e quindi catturano la loro attenzione, della violenza e della mentalità criminale, condividendo non solo l’esperienza personale, ma anche un immaginario collettivo che genera identità e coesione sociale, in un ambiente frammentato e perennemente in conflitto.
Ciò significa che i messicani e gli internauti sono ormai pronti ad accettare la logica dello “smascheramento”, ovvero ad andare oltre i limiti imposti dalla clandestinità. È una presa d’atto di qualcosa che già sta avvenendo: sono decine se non centinaia i profili di Facebook o di Instagram in cui i narcos postano le foto dei loro volti e delle famiglie. Non hanno remore nell’essere ripresi mentre sgozzano il malcapitato di turno o mentre hanno tra le braccia un figlio.
Ma ad ogni azione comunicativa corrisponde quasi sempre una strategia di guerra. L’operazione “ci mettiamo la faccia” arriva, infatti, dopo aver pubblicato un video, lo scorso sette agosto, in cui è stato interrogato e giustiziato un membro del Cartello di Sinaloa. Una vera e propria dichiarazione di guerra 2.0. La maschera, dunque, è stata gettata per affrontare a viso aperto gli uomini de El Chapo Guzmàn. Le sessantasei foto inviate a El Blog del Narco, con i volti dei “soldati” in bella mostra, sono state accompagnate da una frase che suona come un incitamento alla lotta armata: «I migliori sicari del Cartello del Golfo mostrano la faccia per far vedere al Chapo Guzmàn che non hanno paura».
Il fatto che questi volti siano in maggioranza di teenager può avere diversi significati: una nuova generazione che vuole forzare le gerarchie interne per conquistare il potere; la capacità del Cartello di conquistare alla sua battaglia (e ai suoi affari) giovani disposti a morire per ottenere denaro e benessere; l’uso strumentale di ragazzini da mandare al massacro contro le truppe de El Chapo per poi trattare sulle quote di mercato da spartire; l’introiezione della violenza come identità collettiva delle nuove leve criminali.
Perché gli americani si scandalizzano? Non hanno forse la stessa età di questi ragazzi messicani i latinos, i colored e gli upset whites che muoiono a migliaia nelle faide tra gang dei ghetti metropolitani? Sono migliaia le foto in rete di gangster adolescenti che posano armi in pugno, con tanto di dito medio, richiamando il titolo della famosissima hit rap “Fuck tha police” (Fanculo la polizia) dei Niggaz With Attitudes (il cui successo sarà celebrato in un film dedicato ai due leader Dr. Dre e Ice Cube). La maggior parte delle rivolte urbane scatenatesi nell’ultimo decennio sono state guidate da ragazzi tra i quindici e i diciotto anni con una violenza che, in molti casi, non ha alla base una lotta per la difesa dei diritti civili ma è solo una reazione contro l’autorità costituita.
L’abbassamento dell’età media tra gli affiliati delle bande criminali, con ruoli apicali o in qualità di killer, è un tema scottante che riguarda l’intero pianeta. In Africa e nel Sudest asiatico i bambini soldati sono stati educati sin dalla nascita all’odio tribale. Sono assassini spietati perché il sistema di regole sociali in cui sono cresciuti non prevede alternative al conflitto permanente, generato dalla sete di vendetta.
Guardando all’Europa, non possiamo dimenticare ciò che sta accadendo a Napoli. Le ultime vicende al Rione Sanità e a Forcella raccontano una faida promossa da adolescenti che si ammazzano tra loro per colmare il vuoto lasciato dagli adulti finiti in galera. Una generazione di nativi digitali che sparano e poi postano su Facebook. Alla metà di luglio sul gruppo “Rione Sanità”, nel giorno della morte di Emanuele Sibillo, è stata caricata la foto di Ciro Esposito con questo commento: «Adesso puoi riposare in pace». Ciro può riposare in pace perché il suo presunto assassino è stato ammazzato.
Le armi sono la loro identità e i loro status symbol. Quando impugnano un revolver “se sentono uommene” ma sono nati tutti negli anni Novanta. Imparano a sparare con la play station o in poligoni improvvisati tra tetti e terrazze fatiscenti del centro storico, usando le paraboliche come bersagli. Si dichiarano fan di Genny Savastano, credono di essere i protagonisti di una fiction e forse sperano, come il loro idolo, di tornare in vita nella seconda serie. Alla stregua dei soldati bambini sono cresciuti senza alternative e a soli diciassette anni possono arrivare ad occupare un posto di rilievo nell’organizzazione, come “Totore ‘o malegno” considerato un pistolero con “le palle” perché ha avuto lo stomaco di fare fuori “nu strunz” che gli aveva chiesto una sigaretta all’uscita dalla discoteca.
Forcella, il regno dei Giuliano, è diventato un inferno senza regole, nemmeno quelle criminali. Guagliuni ‘e miezza ‘a via che in assenza degli adulti si sono fatti largo con il piombo e le minacce virtuali. Realtà e immaginario si intrecciano in un mix inestricabile formando un nuovo blocco criminale/adolescenziale che ha introiettato la violenza dei media come interpretazione del quotidiano, a Napoli come in Messico.