“La condanna di mio marito è una vendetta di Putin”: parla la moglie del dissidente russo Kara-Murza
Siccome non sono riusciti a ucciderlo con il veleno, l’hanno arrestato con una scusa e poi gli hanno dato 25 anni di galera. Glieli ribadiranno in appello. Non c’è da aspettarsi altro: in Russia meno dello 0,5% degli imputati viene assolto. Dati dello stesso governo. Il reato, “alto tradimento”. Per aver parlato in pubblico contro la guerra e la politica del regime russo.
“Un cinico atto di vendetta”, secondo la moglie di Vladimir Kara-Murza. Il politico russo che insieme al leader dell’opposizione Boris Nemtsov — poi ammazzato a colpi di pistola sotto le mura del Cremlino su ordine di ignoti — spinse per l’adozione di sanzioni personali da parte dell’Occidente contro i sodali dello zar macchiatisi di violazioni dei diritti umani. Una cosa che a Mosca non gli hanno mai perdonato. Alla fine, è arrivato il regolamento di conti. A condannarlo è stato un giudice nella lista dei sanzionati. “Ma il mandante è Putin”, dice a Fanpage.it Evgenia Kara-Murza.
Il marito è sopravvissuto una prima volta nel 2015 e poi ancora nel 2017 alle attenzioni del “team omicidi” dell’Fsb, il servizio di sicurezza erede del Kgb sovietico. La stessa squadra che ha avvelenato Alexei Navalny — hanno rivelato inchieste giornalistiche incrociate di Bellingcat , The Insider, Der Spiegel e Cnn.
Nonostante abbia casa anche negli Usa, dove da tempo ha trasferito la famiglia per motivi di sicurezza, Vladimir ha sempre voluto svolgere la sua attività politica in Russia, dove è tornato anche poco dopo l’invasione dell’Ucraina. Da lui condannata senza mezzi termini. Inevitabile l’arresto. “Prima o poi saranno i veri criminali a essere giudicati, Putin compreso”, ha scritto in una nota consegnata ai suoi avvocati alla vigilia dell’appello.
Da quando Kara-Murza è in carcere — oltre un anno — la moglie Evgenia ha continuato il lavoro politico del consorte, impegnandosi in ogni sede per chiedere la liberazione sua e degli altri prigionieri di coscienza in Russia. Con qualche successo: il Canada ha appena concesso la cittadinanza onoraria a Vladimir domandandone l’immediato rilascio; l’Ue pochi giorni fa si è unita alle sanzioni contro i suoi persecutori; negli Usa è in corso una campagna a suo favore che coinvolge mezza Capitol Hill.
“Non è nella mia natura essere un personaggio pubblico ma non avevo scelta”, spiega Evgenia. “Voglio che il padre dei miei figli sopravviva e possa un giorno tornare a casa”. I ragazzi Kara-Murza hanno tra gli 11 e i 17 anni. “È difficile per loro. Ma sono fatti della stessa stoffa di Vladimir. Di fronte ai prepotenti tengono la schiena dritta. Da parte mia, senza tante chiacchiere ma con l’esempio, cerco di fargli capire che persona è davvero il loro eroe, il loro papà”.
Intervistiamo Evgenia Kara-Murza in esclusiva, in video-conferenza dalla Virginia.
L’aumento della repressione in Russia è andato di pari passo all’aggressività del Cremlino in sull’arena internazionale. Due facce della stessa medaglia?
Per proseguire nella sua aggressione militare conto l’Ucraina, Putin ha bisogno di sradicare ogni dissenso all’interno della società russa. E vuol creare per i russi e per il mondo un’immagine secondo cui il sostegno interno per la sua guerra e per la sua politica è schiacciante.
Non è forse così?
Al contrario. Il fatto che debba ricorrere a una repressione spietata, a condanne di 15 anni per chi parla contro la guerra, al ricovero forzato negli ospedali psichiatrici e a violenze di ogni per chi lo critica significa che l’opposizione al conflitto è considerevole, nella società russa.
Dai sondaggi e dai dati disponibili non risulta. Perché?
Sono dati sottostimati: le organizzazioni per i diritti umani in Russia sono state bandite, o bollate come “agenti stranieri”, “indesiderabili” e “terroristiche”. Ma secondo Ovd-Info, che monitora la repressione delle proteste e con molte difficoltà continua a lavorare, 20mila persone son state arrestate per aver manifestato contro la guerra. Solo in 25 giorni sui circa 460 dall’inizio dell’invasione non ci sono stati arresti. E si tratta certamente di una stima conservativa.
Dal 2012 — dopo le manifestazioni di massa contro Putin — il codice penale russo ha introdotto l’articolo sull’alto tradimento. Che però solo di recente è stato utilizzato. Anche contro suo marito. È un ritorno ai tempi sovietici, quando accusare gli oppositori di tradimento era la norma?
L’articolo è diventato un mezzo della macchina repressiva del regime: almeno trenta casi dall’inizio di quest’anno, secondo l’Ong Pervy Otdel (ovvero “Primo dipartimento”, dal nome della sezione del Kgb presente in ogni impresa e istituzione e incaricata della “sicurezza politica” ai tempi dell’Urss, ndr). La Duma il cosiddetto parlamento russo, sta adesso introducendo una legge che punirà il reato di alto tradimento con l’ergastolo. L’intento non è solo punitivo ma anche e soprattutto intimidatorio.
Come sotto Stalin?
Siamo tornanti agli anni ’30. Non per la scala della repressione, che al tempo di Stalin colpiva milioni di persone. Ma per la qualità e la lunghezza delle sentenze. E anche la quantità delle sentenze più dure sta aumentando, la strada presa dal regime sembra la stessa di allora.
Venticinque anni somigliano molto a una condanna a morte, ci disse subito dopo il verdetto l’avvocato di suo marito. Viste anche le condizioni di salute del condannato. Ma il regime durerà 25 anni? O Vladimir Kara-Murza ha un vantaggio su Vladimir Putin, in questo senso?
L’atteggiamento di mio marito è improntato a un “ottimismo senza fondamento”, ha scritto qualcuno. Un ottimismo disperato, in teoria. Ma lui di formazione è uno storico. E sa bene che nella Storia ogni dittatore si è creduto invincibile. Fino a quando, inevitabilmente, non è caduto. Questo vale anche per Putin. Un giorno cadrà. Molto prima che passino 25 anni. Chi esagera con l’ottimismo, qui, non è il mio Vladimir ma sono solo quelli che hanno condannato a una pena così lunga.
E come cadrà Putin?
Non per conto suo. Non possiamo star fermi ad aspettare. Chiunque abbia la possibilità di far qualcosa, deve farlo. Oggi, subito. E non ci sono bacchette magiche né ricette miracolose. Una soluzione unica non esiste. Solo la combinazione di azioni collettive decreterà la fine del regime di Putin.
Il problema è che la salute di suo marito mal si concilia anche col carcere. Come sta, Vladimir?
I due tentativi di omicidio per avvelenamento ne hanno minato la salute. Sono state due mazzate terribili. Ha subito un collasso multiplo degli organi. Come se fosse stato travolto da un treno in corsa, mi disse un medico. Il carcere non è il posto migliore per tenere sotto controllo le sue condizioni. Soprattutto se è un carcere russo. Dove la vita è particolarmente dura e le cure mediche non certo ideali.
Non vedo molte dimostrazioni per la libertà di Vladimir e degli altri. Cosa possiamo fare in Occidente per i prigionieri di Putin?
Le manifestazioni ci sono state eccome. Sono reduce da una di queste davanti all’ambasciata russa a Washington. Era imponente. Forse non le si fanno in Italia? Dovreste farle. Sono estremamente efficaci. La fondazione per cui lavoro, Free Russia, si dà parecchio da fare in questo senso. E cerca anche di mantenere i rapporti con la società civile russa. Non è vero che non esiste più: iniziative in favore dei diritti nascono ogni giorno. Puntualmente il governo le chiude. E puntualmente rinascono altrove.
In Italia abbiamo visto invece manifestazioni “per la pace” dove sventolavano bandiere della cosiddetta Novorossiya, che corrisponde ad alcuni dei territori ucraini occupati dalla Russia, e delle repubbliche del Donbass annesse a Mosca. Mentre mancavano le bandiere dell’Ucraina.
Eppure il supporto per l’Ucraina è fondamentale, se il mondo vuol contare su una Russia libera con cui si possa riprendere la cooperare. Una vittoria di Kyiv e una pace secondo i suoi termini è cruciale. Putin in passato ha commesso crimini analoghi a quelli che sta commettendo in Ucraina. E se l’è sempre cavata. Penso all’Invasione della Georgia nel 2008, quando ha occupato impunemente il 20% del territorio. O all’annessione della Crimea: dopo poco tempo la comunità internazionale se ne era dimenticata e aveva ripreso a fare affari col Cremlino e a trattare Putin come un partner sull’arena globale. Se in questa guerra otterrà qualche tipo di vittoria, continuerà a pensare di poterla passare sempre liscia. E a lanciarsi in avventure simili.
Nessuna ripercussione, dice lei. E le sanzioni? Introdotte da anni, dopo l’invasione dell’Ucraina si sono moltiplicate.
E sono importanti. Ma il problema è che il governo russo riesce ad aggirarle. Attraverso triangolazioni più o meno complicate, per tutto lo scorso anno l’Occidente ha fornito alla Russia droni — in teoria per l’agricoltura — e microchip adatti all’uso bellico. Almeno è diventato meno facile ottenerli. Ma certo l’atteggiamento delle aziende occidentali deve cambiare. Serve un monitoraggio adeguato. E si deve accelerare sulle sanzioni personali. Che dimostrano al Cremlino come il mondo democratico sappia chi sono i criminali e sia pronto a colpirli. Un messaggio preciso. Efficace quanto simbolico. Perché aiuta i russi che rischiano la loro libertà o addirittura la loro vita per combattere il regime a sentirsi meno soli.
È importante, che il mondo non faccia sentire “soli” i russi che vogliono un Paese democratico?
L’opposizione deve sopravvivere. Perché dovranno essere i russi a cambiare il loro Paese. Siamo nel terzo decennio del Ventunesimo secolo. Non credo alla possibilità di interventi di potenze straniere per raddrizzare le cose. È roba di altri tempi. La democrazia non può essere imposta dall’alto né da altri.
Eppure in molti sostengono che l’Occidente intende provocare una “defederazione” della Russia. Farne uno spezzatino. Distruggerla.
Una Russia “defederata” sarebbe un pericolo per il mondo. Alcuni degli Stati che nascerebbero avrebbero probabilmente regimi autoritari. Il problema non è il Paese è troppo grande. Il problema è il sistema di potere di Putin. Che non ha mai voluto una vera e propria federazione: perché il potere è altamente centralizzato. La Russia deve essere unita, democratica e veramente federale.
Parlava poco fa delle sanzioni mirate ai personaggi vicini al regime responsabili di violazioni dei diritti umani. La strada per questo tipo di provvedimenti è stata aperta dal Magnitsky Act, la legge statunitense di cui proprio suo marito è stato un fautore. È anche per questo che in Russia c’è chi ce l’ha tanto con lui?
La sua condanna è stata un cinico atto di vendetta. Vladimir iniziò la campagna per l’adozione del Magnitsky Act insieme a Boris Nemtsov (leader dell’opposizione russa ucciso nel febbraio 2015 di fronte al Cremlino, ndr), e dopo l’assassinio di Nemtsov ha continuato da solo. Per tre mesi, perché poi cercarono di uccidere anche lui. Con il veleno. Ci riprovarono due anni dopo. Il governo russo ha cercato di far fuori o di mettere in prigione chiunque abbia sostenuto fattivamente il Magnitsky Act. E ciò significa che davvero ha paura delle sanzioni contro le singole persone che quella legge ha inaugurato.
È una legge americana ma se non mi sbaglio Boris Nemtsov la definì, paradossalmente, la miglior legge per la Russia mai approvata.
Ed è così, perché protegge i diritti dei russi, andando contro i cleptocrati e gli assassini che opprimono il loro popolo e adesso guidano la criminale aggressione all’Ucraina. La legislazione e soprattutto il sistema giudiziario russo oggi non lo fanno.
Il giudice Sergei Podoprigorov, che ha condannato suo marito, è da tempo nella lista dei sanzionati dal Magnitsky Act. Non certo un giudice terzo e imparziale.
E infatti ha potuto prendersi la sua vendetta. Ma non pensate che sia stato lui a scegliere la pena per Vladimir Kara-Murza. Podoprigorov è solo una ruota dell’ingranaggio. Una sentenza così pesante, con tale valore politico, non può che esser stata decisa più in alto. Il mandante della vendetta è Putin.
Lei non aveva mai fatto politica. Adesso ha preso il posto di suo marito. È stata una decisione difficile?
Andava contro la mia natura riservata. Non mi piace essere una persona pubblica. Facevo l’interprete e la traduttrice e credo che la migliore interprete sia quella che non si fa notare. In questo senso è stata una decisione difficile. Ma in realtà non avevo scelte. Perché il lavoro di Vladimir era troppo importante per la società civile russa. Dovevo farmi avanti, e lottare per le sue idee e per lui. Perché voglio che sopravviva e che possa un giorno tornare a casa. E poi Vladimir è solo uno dei prigionieri politici. Ce ne sono centinaia, in Russia. Non posso non mettermi nei panni dei familiari degli altri prigionieri di coscienza. Devo combattere anche per loro.
E ai suoi tre figli adolescenti, che dice? Cosa gli spiega del loro papà e del lavoro che adesso è lei a portare avanti?
È la parte più difficile. Perché ora che hanno più bisogno di me, spesso non sono con loro. Per continuare le attività di Vladimir, viaggio di continuo. Così non sono né a Mosca con lui né a casa con i ragazzi. L’unica cosa che spero è di dar loro un buon esempio. Perché troppi discorsi da genitore spesso diventano poco più un rumore di fondo. Mentre l’esempio davvero può insegnare. Ecco, l’esempio è di lottare per ogni cosa che si vuole ottenere. Perché le cose non succedono da sole. E che si devono difendere i propri principi. Siamo tutte tessere di un disegno più ampio: se i diritti umani vengono violati in qualsiasi parte del mondo, sono anche i nostri diritti ad essere violati. D’altra parte, è quello che Vladimir ha sempre insegnato ai nostri figli. Schiena dritta e coraggio di fronte ai prepotenti, sempre.
La sua figlia più grande, 17 anni, ha parlato in pubblico, recentemente.
Sì, per la prima volta. Di fronte a una sala piena di senatori e deputati americani. È una ragazzina e ha il cuore a pezzi. Ma ha lo stesso spirito di suo padre. Si è fatta coraggio, ha affrontato la sfida. E si era scritta lei il discorso. Aveva undici anni quando suo padre fu avvelenato per la seconda volta. La stessa età che ha il suo fratello più piccolo adesso, quando Vladimir è stato condannato a un quarto di secolo di prigione. L’altra ragazza ha 14 anni. Hanno tutti e tre una età per cui si rendono conto perfettamente di cosa succede. Sanno che il padre è un eroe. Cerco di farli partecipare a eventi con altre persone che lottano per la libertà. In modo che capiscano che papà non è solo. Che molte persone lo amano e sono pronte a rischiare tutto per i loro principi e per difendere chi è oppresso. Credo che così possano capire meglio che persona è davvero il loro padre.