L’Italia spende sempre meno in difesa e cooperazione internazionale
I fondi destinati al comparto della sicurezza e della cooperazione internazionale continuano a diminuire. Nonostante i numerosi e ripetuti richiami internazionali, gli obblighi d'impiego derivanti dalle alleanze militari e politiche, e la consapevolezza che l'instabilità globale si nutre proprio di assenza di sicurezza e programmi di sviluppo, le autorità italiane continuano a chiudere i rubinetti del comparto Difesa da ormai oltre un decennio.
E non ha importanza il colore politico del governo di turno o il nome del premier alla guida del paese, i freddi numeri descrivono una politica bipartisan e di ormai lunga durata incentrata sulla graduale dismissione dall'arena internazionale. Secondo quanto riportato nel rapporto Openpolis (commissionato da Repubblica.it) si è passati dai 31 miliardi di spesa previsti nel 2005 ai circa 26 del 2014. Una diminuzione non da poco per un settore che contiene al suo interno sia i fondi destinati alle operazioni militari sia quelli destinati alla cooperazione internazionale e che, è bene sottolineare, porta al suo interno una straordinaria disparità tra la componente di spesa relativa alle forze armate e quella relativa alla cooperazione.
I dati presenti nel rapporto dicono che se nel 2005 la cooperazione rappresentava circa il 14% del totale di spesa, nel 2015 è scesa ulteriormente lambendo la soglia dell'11 per cento. Tradotto in cifre assolute si tratta di 2.9 miliardi contro i 23.3 destinati ai militari (del totale dei 26 miliardi per l'intero settore), detto in altri termini quindi il rapporto indica che su dieci euro spesi per le attività del settore 9 sono andati a quelle militari e uno alla cooperazione.
Questa disparità, tuttavia, non deve far pensare che la Difesa navighi in acque dorate. Tutt'altro. Si stima infatti che nell'anno in corso l'Italia investirà soltanto l'1 per cento del suo Pil per la Difesa. Una cifra evidentemente esigua, anche perché nel segmento della Difesa-sicurezza vanno comprese sia le forze che operano sul territorio nazionale (si pensi alle varie operazioni in corso per tutelare la sicurezza dei cittadini, come ad esempio “Strade sicure”) sia le forze di polizia (quindi anche Carabinieri e Guardia di Finanza, nonché Capitaneria di Porto) che devono operare direttamente ed efficacemente per la tutela del territorio e dei suoi abitanti.
E i partner internazionali dell'Italia non sono affatto contenti del costante taglio di risorse alle spese militari attuate dai governi italiani. Basti pensare alla Nato che ribadisce in ogni occasione (in queste ore, ad esempio, è in corso a Bruxelles il meeting dei ministri della Difesa) la necessità di raggiungere un rapporto minimo del 2 per centro fra spesa militare e Pil nazionale. E con i venti di guerra che spirano con forza sull'Europa orientale (il numero di esercitazioni condotte dai paesi membri dell'Alleanza Atlantica ad esempio si sono moltiplicate nel corso degli ultimi mesi e quindi anche il coinvolgimento delle forze aeree, marittime e terrestri italiane impegnate in training intensivi in scenari di guerra che simulano – sempre senza mai citarlo direttamente – il possibile conflitto con le forze russe), si sono ripetuti con particolare insistenza gli inviti a Roma a fare di più e meglio nel settore militare con, ad esempio, il segretario della Difesa Usa Ashton Carter che ha ribadito senza girarci troppo attorno che la gestione e lo schieramento delle truppe terrestri in Europa spetta principalmente ai paesi comunitari.
In termini numerici, e secondo il parametro Nato, l'Italia in undici anni ha perso lo 0.5 per cento, passando dal 2 all'1.5 (mentre rimanevano nei parametri richiesti solo: Stati Uniti, Francia, Grecia, Turchia, Regno Unito ed Estonia). E a colpire, nel quadro più generale è proprio il paese ellenico che, insieme a Polonia e Portogallo, ha incrementato in modo sensibile i fondi destinati al comparto militare nonostante le note ed evidenti difficoltà economiche e di bilancio che Atene affronta da molti anni (in termini percentuali la Grecia è passata dal 2.2 al 2.4, Varsavia dall'1.8 al 2.2 e Lisbona dall'1.3 all'1.4 per cento).
La scialba prestazione italiana diventa pessima se ci si sposta, sempre in ambito internazionale, passando dalla Nato all'Onu. L'Organizzazione delle Nazioni Unite prevede che, in merito alla cooperazione, ogni Paese destini almeno lo 0.7 per cento del reddito nazionale lordo agli aiuti per lo sviluppo internazionali. Anche in questo caso l'Italia è molto sotto la richiesta, registrando un ulteriore peggioramento e passando dallo 0.29 per cento allo 0.16 per cento di quest'anno. Discorso a parte merita il cosiddetto “decreto missioni”, inserito ugualmente all'interno del più ampio capitolo spese per Difesa e Cooperazione, che stanzia su base annuale o semestrale parte dei fondi destinati alle missioni militari ed alle iniziative di cooperazione internazionale.
Tra il 2009 e il 2014 le autorità italiane hanno destinato 8 miliardi di euro per tali spese (di cui il 91 per cento alle spese militari e il restante 9 alla cooperazione), con una media totale di 1.3 miliardi di euro l'anno. L'analisi dei dati relativi al decreto missioni mette in evidenza come, sebbene i numeri siano ancora estremamente sproporzionati, il segmento di spesa destinato alla cooperazione ha registrato persino alcuni timidi segnali di crescita, mentre è diminuita quella militare (in termini numerici nel 2009 circa 1.2 miliardi di euro venivano destinati alle missioni militari contro i 123 milioni della cooperazione, nel 2014 invece i fondi destinati alle forze armate sono stati 936 milioni a fronte dei 136 destinati alla cooperazione). Le statistiche, dunque, mettono in evidenza come il decreto missioni – nonostante la maggiore attenzione destinatagli dall'opinione pubblica – risulti comunque una voce di spesa minima per lo Stato italiano. In questo quadro si deve inoltre registrare la diminuzione dei fondi destinati alle missioni estere. Dai 183.6 milioni degli ultimi sei mesi dello scorso anno si è passati ai “soli” 126,4 milioni spesi al 30 settembre 2015.
In estrema sintesi, dunque, emerge che l'attenzione della politica italiana è sempre meno rivolta alla presenza del tricolore negli scenari internazionali più complessi, dove a parere di chi scrive sarebbe invece opportuna una maggiore conoscenza dei territori e delle dinamiche che li governano anche e soprattutto per contrastare le ormai frequenti e profondissime crisi internazionali che causano migliaia di vittime l'anno (siano esse in termini di morti, feriti o persone che devono scappare da guerre e carestie) gravando, in ultima analisi, anche sulla vita sociale e politica nazionale. L'esempio libico ricorda come l'aver contribuito, seppur indirettamente, a rovesciare il regime dispotico e dittatoriale del Colonnello Muammar Gaddafi senza intervenire con decisione per aiutare le autorità locali a costruire un presente di stabilità e diritto, si rovesci direttamente sia sulle migliaia di profughi che ogni giorno passano per il territorio Nord africano (spesso detenuti, maltrattati e rapinati) in cerca di un futuro migliore proprio in Europa (e non come molti erroneamente pensano in Italia) sia sulle casse dei paesi che devono gestire – poco e male come suggeriscono i dati – l'emergenza migranti di questi anni.