Khader Adnan interrompe il digiuno, Israele annuncia: sarà libero il 17 aprile
Khader Adnan è un panettiere trentatreenne esponente del gruppo palestinese Jihad islamica. Per sessantasei giorni Adnan ha portato avanti uno sciopero della fame contro l'immotivata segregazione cui Israele lo costringe dal 17 dicembre 2o11, da quando è stato arrestato nei pressi della città di Jenin (la stessa in cui aveva svolto il ruolo di portavoce del gruppo palestinese Jihad Islamica) per presunte "attività che minacciano la sicurezza nazionale". Khader riferisce di essere stato legato, picchiato, caricato su una jeep – davanti agli occhi esterrefatti della madre e dei figli – e trasportato in carcere. Il tutto senza che né al momento dell'arresto né nei mesi successivi venisse in qualche modo formalizzata alcuna accusa. Per questo, fin dal giorno seguente l'arresto, il giovane panettiere si è rifiutato di mangiare, chiedendo insistentemente e a gran voce che Israele producesse le prove di un suo eventuale coinvolgimento in operazioni violente. Le prove non sono arrivate, l'accusa formale neppure, ma Israele non sembrava affatto intenzionata a rilasciar Adnan, tanto che lo scorso 13 febbraio ha rigettato la richiesta di appello dell'avvocato del ragazzo.
Il caso di Khader Adnan non è che il simbolo di un dramma molto più vasto; un problema che coinvolge almeno 310 palestinesi, di cui alcuni minorenni e diciotto membri del Consiglio legislativo palestinese. La pratica dell'arresto preventivo e della detenzione amministrativa è costume diffuso in Israele che, anzi, rivendica con forza il diritto a utilizzare uno strumento che considera decisivo per il controllo delle regione. La legge israeliana, infatti, prevede che un giudice militare abbia facoltà di condannare un sospetto a sei mesi di reclusione (rinnovabili) senza alcun obbligo di rendere note le accuse. Si tratta di un provvedimento che provoca non pochi imbarazzi all'interno della comunità internazionale e che si inscrive in un quadro in cui la sospensione della democrazia pare caratterizzare piuttosto di frequente l'operato di Israele. Ad esempio, infatti, pochi sanno che secondo le testimonianze raccolte dalla Defense for Children International sono almeno 300 ogni anno i minori detenuti nelle carceri israeliane, spesso hanno un'età inferiore ai 14 anni e colpe non più gravi del lancio di un sasso. Stando ai dati del DCI, il 70% dei bambini viene detenuto da 6 mesi ad un anno, il restante 14,6% viene segregato per oltre tre anni.
Il digiuno di Adnan, quindi, non va inquadrato nell'ottica della lotta per i diritti umani ma si tratta di un atto politico teso a evidenziare i lampanti e reiterati abusi della politica israeliana. La vicenda, inoltre, ha infervorato gli animi della comunità palestinese. In sessantasei giorni il trentatreenne è arrivato a perdere trenta chili e nelle ultime ore ha seriamente rischiato la vita. Il 18 febbraio scorso, migliaia di persone hanno affollato le strade della Cisgiordania per manifestare in favore del panettiere, Twitter ha amplificato l'eco dell'evento, Amnesty International si è mobilitata per chiedere spiegazioni e molti esponenti dei governi occidentali hanno cominciato a fare non poche pressioni sul governo di Netanyahu perché liberasse Khader Adnan. Il timore di molti, infatti, era che l'indignazione per il trattamento riservato al trentatreenne palestinese e l'indifferenza per la sua salute potessero scatenare un focolaio di rivolta in cui qualche osservatore rilevava finanche la possibilità dell'avvio di una Terza Intifada.
Fortunatamente, nulla di tutto questo è avvenuto. Il ministero della giustizia israeliano ha fatto sapere che il prossimo 17 aprile, alla scadenza del mandato d'arresto, non confermerà il fermo di Khader. Contestualmente, gli avvocati del giovane hanno comunicato l'interruzione dello sciopero della fame, sottolineando – però – che le sue condizioni di salute restano critiche. Certo, se da un lato è innegabile che Khader Adnan faccia parte di un'organizzazione estremista che vorrebbe la cancellazione dello stato di Israele, è pur vero che in uno stato democratico non può trovare spazio la logica dell'arresto preventivo, della detenzione protratta in mancanza di prove, del processo alle intenzioni, delle sevizie atte ad estorcere informazioni. Questa volta Israele si è arresa alle pressioni, ma purtroppo non pare verosimile che questo unico gesto si traduca in un generale cambio di atteggiamento, specie se si considera il clima di tensione che, negli ultimi mesi, si respira nella striscia di Gaza e in generale in tutto il Medio Oriente. La resa di Israele che tanto entusiasma i palestinesi va interpretare – infatti – nell'ottica della cautela, una cautela che si fa tanto più urgente quanto più si avvicina la resa dei conti con l'Iran.