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Karapiru, indigeno morto per Covid, è il filo che lega la pandemia alla devastazione della Terra

Era uno degli ultimi membri della tribù amazzonica degli Awa. Ha visto sterminare la sua famiglia da chi voleva devastare la foresta. Ha lottato per decenni per la sopravvivenza del suo popolo. È morto di Covid-19 lo scorso 16 luglio, con la complicità del governo brasiliano, che non ha protetto gli indigeni dalla pandemia. Non c’è storia che meglio della sua racconta il legame tra il disastro sanitario e la devastazione del pianeta.
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© Survival

Se c’è un filo rosso che unisce la devastazione ambientale del pianeta e l’epidemia di Covid-19, al termine di quel filo c’è un uomo che si chiama Karapiru. Karapiru era uno dei cinquecento membri degli Awa, una delle ultime tribù ancora in parte inconttatate dell’Amazzonia ed è morto di Covid-19 il 16 luglio scorso. Non è un caso, né un accidente del destino. Perché se è vero che il Brasile è uno dei territori più colpiti al mondo dalla pandemia – quasi 20 milioni di casi e più di mezzo milione di morti -, è vero anche che la proliferazione del virus in Amazzonia è al centro di numerose indagini e denunce che coinvolgono in prima persona il presidente Jair Bolsonaro, accusato non solo di non aver difeso dal Covid le popolazioni indigene, che hanno accesso solo in parte alle cure e al vaccino anti-Covid e che non sanno minimamente come affrontare una pandemia come questa. I dati, scarsi, parlavano qualche mese fa di più di un indigeno su venti contagiati e di un tasso di mortalità più che doppio rispetto a quelli di città come Rio de Janeiro o San Paolo.

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Questa però è solo la fine della storia di Karapiru. E forse è pure solo la fine della storia del Covid-19. Perché Karapiru e gli Awa sono al centro di una battaglia che dura da più di mezzo secolo per la protezione dell’Amazzonia, il cosiddetto polmone del mondo. È una storia, quella di Karapiru – che vuol dire “falco” nella lingua Awa – che inizia alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, quando alcuni geologi americani in ricognizione aerea sopra lo stato del nello stato del Maranhão, tra le foreste equatoriali dell’Amazzonia occidentale, scoprirono alcune rocce grigio-nere sul terreno. Non sapevano ancora che quello era il più grande giacimento di ferro del pianeta, il Gran Carajas.

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© Peter Frey/Survival

A metterci le mani sopra furono, ovviamente, tutte le grandi potenze economiche del pianeta, dagli Usa al Giappone, sino all’allora Comunità Economica Europea. Come racconta Survival International, “furono costruite una diga, fonderie d’alluminio, una linea ferroviaria lunga 900 km e strade asfaltate che distrussero immense fasce di foresta pluviale primaria. Nacquero i primi allevamenti di bestiame e nel suolo della foresta fu scavata una voragine così vasta da poter essere vista dallo spazio: nel corso del tempo sarebbe diventata la miniera a cielo aperto più grande del mondo”. In quella che un tempo era foresta, arrivava il capitalismo. Minatori, ovviamente. Ma anche taglialegna, allevatori e semplici coloni, desiderosi di prendersi brandelli di quell’enorme giacimento di denaro.

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Deforestazione nel territorio Awá
© Survival

In tutto questo, gli Awa non erano che un ostacolo da rimuovere. E a rimuoverlo ci pensarono bande di assassini che si incaricarono di sterminare tutti i membri della tribù. La famiglia di Karapiru fu fucilata in massa, e lui fu l’unico a scampare al massacro,  con un proiettile conficcato nella schiena. Per dieci anni, Karapiru vagò da solo nella foresta, percorrendo a piedi circa 650 km nello stato di Maranhão. Il primo uomo che vide fu un contadino che  lo avvistò stremato alla periferia di una cittadina ai confini dello stato di Bahia e lo accolse con sé, offrendoli ospitalità in cambio di qualche lavoretto.

Karapiru, grazie al contadino e ai membri del Funai – il dipartimento governativo per gli affari degli indigeni – riuscì anche a ritrovare suo figlio Xiramukû, e tornò a vivere con gli Awa, dove si risposò ed ebbe altri due figli. Ma la sua vita, da quel momento in poi, fu segnata dalla lotta per la sopravvivenza del suo popolo, costantemente minacciato da chi voleva distruggere la foresta. Ancora di più da quando, nel 2019, è diventato presidente del Brasile Jair Bolsonaro, sotto la cui presidenza le multe contro i crimini ambientali nel bacino amazzonico sono calate del 42%, e il budget per la tutela delle aree protette è diminuito del 27%.

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© Fiona Watson/Survival

Se la temperatura del pianeta sale al punto tale da far dire all’Economist, nel numero di oggi, che “non c’è nessun posto al sicuro in un pianeta di tre gradi più caldo del normale” e che ormai dobbiamo solo adattarci al pianeta del cambiamento climatico, è anche perché la lotta di persone come Karapiru è rimasta solitaria e inascoltata per troppi decenni. Perché quel cammino solitario nella foresta è nei fatti diventato la metafora della solitudine di chi più di chiunque altro ha fatto da solitario guardiano a un polmone devastato dall’avidità. Ed è tristemente ironico che di questo ce ne stiamo accorgendo oggi, mentre un virus figlio della deforestazione e della globalizzazione sta mietendo vittime in tutto il pianeta. Non abbiamo ascoltato Karapiru il falco per mezzo secolo, finché era in vita. Ora facciamo che non sia morto invano, magari.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
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