Israele – Iran, cronaca di una guerra annunciata
Un conflitto annunciato – Passato e presente
Israele vuole attaccare l'Iran, e intende farlo in primavera. Sono settimane che i ministri del governo Netanyahu parlano apertamente e senza riserbo dei piani di Israele per attaccare l'Iran. L'intenzione è così esplicita che il ministro della difesa israeliano, l'ex laburista e neo indipendente Ehud Barak (lo stesso che – nel 2000, poche settimane dopo l'inizio della Seconda Intifada – dichiarò senza scomporsi: "Se pensassimo che anziché duecento morti palestinesi, duemila morti potessero porre fine alla guerriglia in un colpo solo, useremmo molta più forza") afferma che l'unico modo per impedire all'Iran di completare il programma nucleare è agire entro l'anno, ovvero prima che la corsa agli armamenti di Teheran arrivi a uno stadio così avanzato da rendere il paese inattaccabile. Oltre questo punto di non ritorno, l'avvio di un conflitto sottintenderebbe il serio rischio della messa in campo di armi nucleari.
Secondo l'analisi che il giornalista investigativo israeliano Ronen Bergman ha realizzato per il New York Times Magazine, i principali leader israeliani sarebbero assolutamente persuasi della sussistenza di tutte le condizioni per l'avvio dell'offensiva ai danni dell'Iran. Tra queste condizioni, spicca per necessità l'appoggio politico e militare degli Stati Uniti d'America; appoggio del tutto scontato dal punto di vista "morale" ma che – al momento – crea non poco imbarazzo al governo Obama. Gli USA, infatti, vorrebbero sostenere l'azione di Israele, ma con le presidenziali in vista non possono – ancora – permettersi di ingaggiare un conflitto che pure progettano da diversi decenni. Del resto, il primo, grosso incidente tra USA e Iran risale agli anni della guerra fredda e della crisi petrolifera.
Era il 1953 quando gli Stati Uniti, fomentati da Churchill e temendo un'alleanza del governo di Teheran con la Russia, decisero di pianificare un colpo di stato ai danni dell'allora primo ministro Mohammad Mossadeq (Operazione Ajax). Il piano, sebbene architettato da CIA e MI6 con l'appoggio dello Scià, inizialmente fallì, costringendo lo Scià all'esilio, ma trovò compimento poco dopo e condusse alla condanna a morte del primo ministro Mossadeq. Questa pesante intromissione nella vita politica iraniana generò l'acuirsi di uno spiccato antiamericanismo e portò (molti anni dopo, nel 1979, sul finire della rivoluzione iraniana) all'occupazione dell'ambasciata statunitense da parte di 500 studenti iraniani e alla presa in ostaggio di 52 membri dell'ambasciata. Ci volle più di un anno perché tutti gli ostaggi fossero rilasciati. I rivoluzionari – infatti – temevano che gli USA tramassero per impedire all'Iran di conquistare lo status di repubblica, congiurando perché lo Scià tornasse dall'esilio esattamente com'era accaduto nel 1953. La crisi si risolse nel febbraio del 1981, con l'esaudimento della richiesta di armi da parte dell'Iran che – intanto – aveva dovuto difendersi da un inatteso attacco iracheno che la costrinse a un'estenuante guerra di posizione durata otto anni. Si scoprirà poi che USA e URSS finanziavano (direttamente o indirettamente) entrambi i fronti del conflitto Iran-Iraq allo scopo di indebolire le due nazioni.
Ed è a pochi anni dalla fine del conflitto Iran-Iraq che il governo di Teheran dà avvio al programma nucleare (sebbene ufficialmente solo a scopi civili); il tutto mentre gli USA cominciano un accerchiamento militare e politico della nazione mediorientale. La tensione, però, si fa evidente solo con la salita al potere – nel 2005 – di Mahmud Ahmadinejad, leader conservatore che si distingue fin da subito per le esplicite posizioni antisioniste e antiamericane. Ahmadinejad ha più volte affermato di voler "spazzar via Israele dalle mappe" ed ha ammesso senza riserve di aver investito nella costruzioni di armamenti atomici per essere pronto a fronteggiare un'eventuale offensiva statunitense. Il leader iraniano, quindi, ha contribuito non poco a rafforzare il desiderio nordamericano di un nuovo conflitto in Medio Oriente e, in più, ha attirato su di sé l'odio di Israele che – dopo anni di guerra segreta – sembra essere ormai pronta a sferrare l'attacco, e intende farlo il prima possibile.
L'ombra del Mossad dietro la morte di 22 iraniani
A poco più di un anno dalla prima dichiarazione antisionista di Ahmadinejad, il programma nucleare iraniano è stato rallentato da una lunga serie di morti sospette. La prima risale al gennaio 2007 e coinvolge Ardeshir Hosseinpour, fisico quarantaquattrenne che lavorava nell’impianto di Isfahan, morto in circostanze poco chiare a causa di una fuga di gas. A questa seguono altre ventuno morti: gennaio 2010, Massoud Alì Mohammadi, fisico delle particelle, muore nell'esplosione di una bicicletta parcheggiata vicino alla sua auto; novembre 2010, Majid Shariari e Fereydoun Abbasi-Davani (alti dirigenti del programma nucleare) vengono attaccati da due motociclisti, il secondo riesce a salvarsi e viene nominato direttore dell'agenzia atomica iraniana; luglio 2011, Darioush Rezaei Nejad, fisico nucleare in forze all'agenzia atomica, viene ucciso da un motociclista al volante mentre è della sua auto; novembre 2011, l'esplosione di sede delle Guardie Rivoluzionarie uccide Hassan Moghaddam, capo della divisione missilistica, e sedici militari; 11 gennaio 2012, Mostafa Ahmadi-Roshan, vice direttore dello stabilimento di arricchimento dell’uranio di Natanz, muore nell'esplosione della sua automobile.
Malgrado né il primo ministro né il ministro della difesa israeliani abbiano mai ammesso il coinvolgimento del governo di Tel Aviv nelle suddette morti, Meir Dagan, ex direttore del Mossad ( servizio segreto israeliano), ha espresso vivo apprezzamento per il fatto che la morte di molti scienziati impegnati nel nucleare abbia reso più difficoltosa la corsa all'atomica da parte dell'Iran. Inoltre, alti funzionari del Mossad hanno manifestato soddisfazione per il fatto che, alla luce di simili avvenimenti, molti scienziati iraniani impegnati nel nucleare abbiano chiesto di essere riassegnati a progetti civili. In ogni caso, Meir Dagan ha fortemente contestato l'ipotesi di un attacco frontale ai danni dell'Iran, affermando che un'operazione del genere avrebbe conseguenze imprevedibili e potenzialmente funeste, ma pare che la sua contrarietà sia rimasta inascoltata.
Bombe a New Dehli, Tbilisi e Bangkok: Israele accusa l'Iran
Netanyahu non ha dubbi: c'è il terrorismo iraniano dietro le bombe che, il 12 e il 14 febbraio di quest'anno, sono esplose in India e Thailandia e hanno rischiato di esplodere a Tbilisi, in Georgia, di fronte alle ambasciate israeliane. Il giorno della prima esplosione, infatti, corrisponderebbe all'anniversario della morte di Imad Mugniyah, capo militare di Hezbollah, libanese e ottimo collaboratore del governo iraniano. Da sempre, infatti, Teheran e Beirut individuano nel Mossad la responsabilità dell'assassinio e, stando a quanto affermato dal primo ministro israeliano, i tre attentanti non sarebbero altro che un tentativo di rappresaglia contro Israele, nonché la conferma che l'Iran non ha mai abbandonato la pratica terroristica e rappresenta "il maggior esportatore di terrore nel mondo". A conferma di questa ipotesi ci sarebbe il fermo a Bangkok di due cittadini iraniani, uno ferito dall'esplosione della bomba, l'altro catturato all'aeroporto.
La reazione di Teheran non si è fatta attendere e si è esplicitata nel deciso rifiuto di riconoscere la paternità degli attentati di cui, anzi, accusa Israele. Secondo il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, il governo di Tel Aviv – in accordo con quello statunitense – avrebbe "diffuso falsi allarmi ,tramite alcuni media affiliati, tesi ad affermare che la Thailandia aveva problemi di sicurezza" il tutto allo scopo di "preparare il terreno per l’attuale scenario" e incrinare i rapporti di amicizia che legano l'Iran alla Thailandia. Inoltre, Mehmanparast afferma di essere decisamente insospettito dalla coincidenza dei tre attentati e si dice certo che l'intento del "regime sionista" di Israele sia quello di creare "scenari dubbi" atti a generare consenso verso le intenzioni bellicose del governo di Tel Aviv.
Cosa aspettarsi
Malgrado l'apparente inevitabilità del conflitto, l'Iran è tutt'altro che pronta alla guerra e non appare affatto intenzionata a provocarla, non ora; non con l'Onda Verde che torna ad affollare le piazze (l'ultimo corteo risale al 14 febbraio) e i tetti di Teheran urlando "morte del dittatore" e "liberate i prigionieri politici"; non con il programma nucleare in fase di ultimazione. La verità è che l'Iran farebbe di tutto per evitare l'attacco israeliano, tant'è vero che il governo di Ahmadinejad preme moltissimo per la ripresa dei negoziati con i big six (Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania), ma pretende che non le sia imposta la precondizione dello smantellamento del progetto nucleare e – anzi – ricorda a tutti i suoi potenziali nemici (per bocca del suo ambasciatore in Russia) che "Teheran risponderà con mezzi di massa ad ogni tentativo di attacco" e sottolinea di non temere "nessuna azione militare".
Il governo di Tel Aviv, dal canto suo, ha posizioni altrettanto inamovibili, e al fermo rifiuto dell'Iran di smantellare il programma nucleare oppone l'affermazione categorica (ribadita in più occasioni) secondo cui sarebbe "pronto a tutto pur di fermare il programma". Appare evidente, quindi, come la questione iraniano-israeliana versi in una condizione di stallo difficilmente districabile. Le posizioni dei due stati sono opposte, inconciliabili e non sembra esserci molto spazio per i negoziati. Israele pretende lo stop del programma nucleare, e né le sanzioni internazionali, né le operazioni di intelligence, né i conflitti politici interni sembrano essere stati in grado di fermarlo in via definitiva. A questo punto, se i leader israeliani sono davvero convinti di avere un certo margine d'azione prima che l'Iran diventi una potenza atomica, è plausibile che optino per sferrare un attacco diretto e repentino come annunciato. Le conseguenze di un simile gesto, però, non sono prevedibili e potrebbero sfuggire a ogni controllo. L'unico maniera per evitare la guerra, ora come ora, consisterebbe nel convincere l'Iran a fermare il suo programma nucleare, ma come possono degli stati che possiedono la bomba atomica convincere un loro nemico a non costruirne una?
In fin dei conti, è questa l'enorme contraddizione dell'intera vicenda: gli USA possiedono ordigni nucleari, Israele possiede ordigni nucleari, ma entrambi chiedono all'Iran di non costruirne sulla base del principio per cui una bomba atomica nelle mani di Ahmadinejad sarebbe quanto di più pericoloso al mondo (anche alla luce delle sue molteplici dichiarazioni riguardo la "cancellazione di Israele"). Ma la storia e l'attualità ci raccontano che – ad oggi – gli unici ad aver fatto uso di ordigni nucleari sono gli Stati Uniti e la nazione colpevole di uno dei più esecrabili tentativi di "cancellazione etnica" è Israele. E allora – forse – sarebbe ora di finirla con l'ipocrisia, con i giochi di potere, con i casus belli pretestuosi; sarebbe ora di capire che non esistono mani sicure in cui piazzare una bomba atomica e che è arrivato il momento di disfarsi – una volta e per sempre – di tutti gli ordigni nucleari presenti sul pianeta.