Iraq, guerra di terra ad un passo: reparti speciali Usa già operativi nel nord del Paese
Caccia F-15E, F/A-18, Tornado Gr4, aerei cargo C-130, C-17, droni Predator MQ-1 ed un numero crescente di elicotteri da trasporto e combattimento. Questo il dispiegamento aereo operativo nello scenario iracheno, un dispositivo di guerra che, nonostante le ripetute assicurazioni dei vertici della Casa Bianca, non può avvenire senza il supporto delle forze di terra.
L'operazione in corso in Iraq, come affermato dal Presidente americano Barak Obama, è stata voluta e pianificata per mettere in sicurezza l'Iraq settentrionale dove le forze jihadiste dell'Is hanno conquistato ampie fasce di territorio mettendo in fuga migliaia di civili inermi, uccidendone molti altri e minacciando la vita dei rimanenti costretti a nascondersi sulle alture del monte Sinjar per trovare scampo dalle armi degli estremisti sunniti. L'operazione in corso in queste ore, che vede l'utilizzo di velivoli nordamericani, australiani e britannici, ha come duplice obiettivo quello da un lato di bombardare e quindi distruggere le postazioni mobili dei militanti del neonato califfato islamico (noto anche con le sigle di Isis o Isil) e, dall'altro, di lanciare beni di prima necessità alle popolazioni curde allo stremo da giorni.
E se, in linea teorica, è possibile ipotizzare per quanto sia improbabile, il lancio di acqua, cibo e materiale medico utilizzando solo le coordinate fornite dal personale diplomatico nordamericano presente nella zona di Ibril (dove infuriano i combattimenti), è pressoché impossibile ipotizzare la localizzazione e distruzione delle postazioni mobili jihadiste attraverso il solo utilizzo del Sigint (ovvero la Signal Intelligence, attraverso cui i servizi di sicurezza analizzano i dati informatici – quali le trasmissioni radio, cellulari e via di seguito, che intercorrono in una specifica area geografica), delle ricognizioni aeree o satellitari.
Gli esperti militari sono concordi nel ritenere che già in questo momento siano operativi reparti delle forze speciali Usa, incaricati di individuare e segnalare la posizione dei militanti islamici e rendere così maggiormente effettivi i raid aerei dell'Usaf (al momento sia la Raf che la Raaf, rispettivamente l'aeronautica militare britannica ed australiana, hanno messo a disposizione aerei cargo, mentre la Raf ha mobilitato anche cinque Tornado, che serviranno secondo Downing street solo per operazioni di ricognizione).
Peter Van Buren, ex diplomatico americano di stanza in Iraq, ha affermato all'agenzia di stampa russa Ria Novosti che: “è altamente probabile che le forze speciali americane stiano già operando sul suolo iracheno, nonostante le affermazioni ufficiali dicano il contrario. La cosa più ragionevole – ha affermato l'ex dipendente del Dipartimento di Stato Usa –, è che le truppe di Washington stiano conducendo operazioni di perlustrazione e posizionando guide laser per l'aviazione”.
Questo scenario, altamente realistico soprattutto se si pensa sia alle modalità operative già attuate dalle forze speciali Usa in Iraq, apre l'orizzonte ad ipotesi d'intervento tutt'altro che leggero come invece auspicate dalla Casa Bianca. Il ritorno sul campo degli anfibi dei Marines americani, ad esempio, andrebbe non solo a contraddire la politica di ritiro voluta e ribadita in tutte le occasioni dal numero uno di Washington, ma chiarirebbe ulteriormente il fallimento della politica nordamericana e dunque alleata in Mesopotamia dove, dall'invasione del 2003, è stato solo un susseguirsi di attentati, stragi e violenze.
Nelle scorse ore, inoltre, il Generale di Corpo d'Armata americano William Mayville, addetto per il Pentagono alla pianificazione strategica delle operazioni nei teatri operativi, ha chiarito che l'utilizzo dei soli raid aerei non sarebbe sufficiente a raggiungere risultati soddisfacenti e, quindi, ad eradicare o quanto meno bloccare l'avanzata delle milizie fedeli ad Abu Bakr al-Baghdadi, il religioso proclamatosi a capo del califfato mediorientale.
“Ciò che mi aspetto – ha affermato l'alto ufficiale Usa –, è che l'Is volga il suo sguardo verso altre zone da conquistare e, quindi, muova le sue truppe altrove. In ogni caso non posso affermare che le nostre operazioni abbiano contenuto in modo efficace le truppe dell'Is o che siamo stati capaci di bloccare la grande minaccia che rappresentano. In ogni caso è difficile che i raid aerei possano effettivamente colpire le capacità operative delle forze dell'Is in Iraq o Siria”.
La scelta di ritirare le truppe dal cosiddetto pantano iracheno è stata dovuta, è bene ricordare, sia dall'alto numero di vittime tra i soldati Usa e non solo, sia dalla crescente pressione dell'opinione pubblica interna ed europea sempre più lontana dalla dottrina NeoCon della Guerra preventiva, come voluta all'epoca dall'amministrazione guidata da Bush Junior. Se gli Usa dovessero riprendere a schierare le truppe sul territorio di Baghdad per fronteggiare, arginare o eliminare le armate dell'Is – che si ricordi sono state sostenute economicamente e militarmente proprio da Washington in chiave anti siriana o, per meglio dire, anti Bashar al Assad e quindi di rimando anti russa–, il contraccolpo politico per Obama potrebbe essere grande (che comunque non potrà essere ricandidato alle prossime elezioni poiché ha esaurito i due mandati di seguito concessi dalla Costituzione americana).
Il limbo politico e militare verso cui sembrano incamminarsi, di nuovo, gli Usa riguarda non solo il possibile utilizzo in campo aperto delle truppe di terra in Iraq, riaprendo ferite mai chiuse sia da parte nordamericana sia nei sentimenti delle popolazioni locali che hanno visto crescere i sentimenti di ostilità verso i militari a stelle strisce, ma soprattutto la gestione delle attività economiche legate all'estrazione del greggio che al momento rappresentano un investimento di primo piano per Washington che, dopo più di dieci anni di guerra, non può permettersi di perdere, anche alla luce delle nuove alleanze energetiche tra Russia, Cina, Brasile ed Argentina.