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Influencer avvelena la figlia per ottenere visibilità e donazioni sui social: non andrà in carcere

La 34enne australiana è riuscita a raccogliere circa 60.000 dollari in donazioni. Avrebbe somministrato alla figlioletta di un anno diversi tipi di farmaci tra agosto e ottobre 2024. Il giudice le ha concesso la libertà su cauzione.
A cura di Biagio Chiariello
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Il momento dell'arresto della donna
Il momento dell'arresto della donna

L'influencer australiana accusata di aver avvelenato la propria figlia per ottenere fama e visibilità sui social media ha ottenuto la libertà su cauzione. La decisione è stata presa il 28 gennaio dalla Corte dei magistrati di Brisbane.

La polizia del Queensland sostiene che la 34enne abbia somministrato alla figlioletta di un anno diversi tipi di farmaci tra agosto e ottobre 2024, con l'obiettivo di aumentare i suoi follower sui social e raccogliere circa 60.000 dollari in donazioni.

Secondo il pubblico ministero Jack Scott, la neonata era stata ricoverata in ospedale per sclerosi tuberosa complessa (TSC), una malattia genetica che provoca la formazione di tumori benigni in vari organi. Le era stata prescritta carbamazepina, un farmaco per l'epilessia, ma i medici avevano sospeso la terapia. Tra agosto e ottobre 2024, la piccola aveva mostrato segni di convulsioni, perdita di coscienza simile a uno stato comatoso e arresto cardiaco. A causa della natura anomala delle convulsioni, che non rispondevano ai farmaci, è stata sottoposta a due interventi chirurgici ad alto rischio.

Le analisi successive hanno rilevato la presenza di vari farmaci non prescritti nell’organismo della bambina, tra cui il diazepam a "livelli presumibilmente pericolosi". Secondo Scott, le somministrazioni ripetute in due mesi e mezzo hanno messo a rischio la salute della piccola e potrebbero aver causato un intervento chirurgico non necessario.

Il magistrato Stephen Courtney ha sottolineato che se la donna fosse condannata, la pena sarebbe stata di "diversi anni". Nel concedere la libertà su cauzione, ha affermato che l'argomentazione dell'accusa, che la donna rappresentasse un rischio per la sicurezza della vittima, dipendeva dalla sua possibilità di avere accesso fisico alla bambina. Secondo il giudice, è improbabile che la donna possa interferire con i testimoni.

Il giudice ha comunque imposto come condizione che la donna non si avvicinasse a meno di 100 metri dalla neonata e che ogni suo contatto con il bambino avvenisse esclusivamente tramite mezzi audiovisivi, sotto la supervisione del servizio di sicurezza per l'infanzia.

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