Due anni fa, migliaia di donne e uomini scendevano per le strade di Varsavia per protestare contro una sentenza della Corte suprema polacca che definiva l’aborto per malformazioni fetali incostituzionale, preparando il Paese a un divieto quasi totale di interrompere la gravidanza.
I manifestanti, guidati dal gruppo femminista di Strajk Kobiet che già aveva organizzato la “Protesta in nero” del 2016, si riunirono in una delle più grandi manifestazioni della storia della Polonia, ricoprendo le strade e i portoni delle chiese di vernice rossa, a simboleggiare il sangue delle donne che scorrerà quando l’aborto tornerà a essere clandestino.
Oggi in Polonia abortire è praticamente impossibile, diverse donne sono morte perché i medici si sono rifiutati di aiutarle durante aborti spontanei per paura di essere incriminati e le autorità hanno messo sotto accusa le leader delle proteste, Marta Lempart, Klementyna Suchanow e Agnieszka Czerederecka-Fabin.
L’accusa ufficiale è quella di aver “causato rischio epidemiologico” dal momento che le proteste si sono svolte in un momento in cui vigeva il divieto di assembramento di più di cinque persone, una misura che molti commentatori internazionali e organizzazioni dei diritti umani hanno considerato una scusa per limitare il diritto di protesta nel Paese.
Durante la pandemia, infatti, il governo polacco ha sfruttato lo stato di emergenza (mai formalmente dichiarato) per promuovere iniziative illiberali e bypassare l’autorizzazione del Parlamento. Il rischio di contagio era stato citato anche per giustificare la violenta reazione della polizia alle proteste del 2020.
Secondo un rapporto dell’organo indipendente sulla prevenzione della tortura, i poliziotti avrebbero picchiato i manifestanti sui genitali e avrebbero trasferito gli arrestati in questure lontane anche più di 100 chilometri da Varsavia, senza alcuna ragione plausibile. Il rapporto cita anche casi di insulti omofobi, perquisizioni umilianti e persone con malattie gravi lasciate senza assistenza medica.
Quasi tutti i manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di epidemia colposa, un reato che prevede fino a otto anni di carcere. Anche se molti sono stati poi rilasciati, le autorità sembrano essersi particolarmente accanite sulle organizzatrici delle proteste.
Marta Lempart era già stata formalmente accusata a febbraio del 2021 di epidemia colposa, oltraggio a pubblico ufficiale e per aver “incitato il vandalismo nelle chiese”, dopo un intervento in radio in cui sosteneva i manifestanti che colpivano le sedi religiose e interrompevano le messe. I giudici avevano fatto cadere le accuse, ma Lempart è stata nuovamente incriminata, sempre per gli stessi reati, insieme alle compagne Klementyna Suchanow e Agnieszka Czerederecka-Fabin. Lempart ha più di ottanta casi in sospeso, tutti legati al suo attivismo politico.
Il divieto totale di aborto ha avuto conseguenze devastanti nel Paese e ha acceso le proteste contro un governo sempre più autocratico e illiberale. Secondo il giornale indipendente Notes from Poland, nel 2021 si sono svolti solamente 107 aborti legali in Polonia, un Paese che ha 40 milioni di abitanti.
Nel 2020 erano stati 1.087, con una diminuzione del 90%. Per fare un confronto, in Italia (60 milioni di abitanti) ogni anno si svolgono circa 30mila interruzioni di gravidanza. Anche prima della legge approvata nel 2021, in Polonia l’aborto era fortemente limitato e possibile solo in caso di gravi malformazioni del feto, pericolo di morte della gestante o in caso di stupro e incesto.
Dopo la sentenza della corte, soltanto gli ultimi due requisiti restano validi, ma le maglie sono talmente strette che molti medici si rifiutano di procedere perché temono conseguenze legali. Inoltre, per provare di essere vittime di stupro o incesto è necessario il certificato di un pubblico ministero che riporti il giorno, l’ora e le circostanze dell’aggressione, cosa che è difficile da ottenere in tempi brevi e praticamente impossibile per le numerose rifugiate ucraine vittime di stupri di guerra, molte delle quali hanno trovato asilo in Polonia.
Se una donna vuole interrompere la gravidanza in Polonia e non ha i mezzi per raggiungere il confine con la Germania lo può fare solo clandestinamente. Nel Paese si sono costituiti diversi gruppi di mutuo aiuto che procurano farmaci alle donne che vogliono abortire, come Abortion Without Borders o Abortion Dream Team.
Una di queste attiviste, Justyna Wydrzyńska, rischia fino a tre anni di carcere per aver acquistato e spedito la pillola abortiva a una donna vittima di violenza domestica. Le richieste di aiuto arrivate dalla Polonia ad Abortion Without Borders nel 2021 sono state oltre 32mila e l’associazione ha aiutato più di 1.500 donne ad attraversare il confine.
Il governo polacco potrà pensare di aver raggiunto il suo obiettivo permettendo soltanto 107 aborti all’anno, ma il divieto d’aborto non ferma l’autodeterminazione delle donne, le espone soltanto a rischi maggiori. E di certo non fermerà il loro diritto di protesta.