In Myamnmar pulizia etnica contro i Rohingya: San Suu Kyi restituisca il Nobel per la Pace
Già a settembre una petizione online avviata sulla piattaforma Change.org aveva chiesto al comitato del Nobel per la Pace di revocare il Premio alla leader birmana Aung San Suu Kyi, rea di non aver fatto "nulla per fermare i crimini contro l'umanità nel suo Paese", commessi nei confronti della minoranza musulmana dei rohingya. A stretto giro la risposta della Fondazione Nobel. In una mail all'Ap Olav Njolstad, capo dell'istituto norvegese, precisò che né le disposizioni del fondatore del premio Alfred Nobel, né le regole della fondazione prevedono questa possibilità. Bene, se la Fondazione non può far nulla in questo senso, allora sia la stessa San Suu Kyi a restituire il Nobel per la Pace assegnatole nel 1991, dopo la schiacciante vittoria elettorale della sua Lega Nazionale per la Democrazia contro il regime militare.
Quel che sta accadendo in Myanmar è sotto gli occhi di tutti. Nei giorni scorsi l'Unicef ha diffuso numeri scioccanti: quasi 1,2 milioni di persone rohingya sono in estrema difficoltà, perseguitate dalla maggioranza buddista e da una serie di monaci sciovinisti per la sola colpa di essere musulmani. Circa 720.000 sono bambini, e hanno lasciato il Paese per fuggire in Bangladesh in seguito all'ondata di violenze interreligiose. È in corso una vera e propria pulizia etnica, un genocidio sul modello ruandese e nazista. Di fronte a tutto questo il silenzio di San Suu Kyi è non solo imbarazzante, bensì pericoloso e indicativo di una propensione a preservare il potere e il consenso interno ad ogni costo. E' l'attitudine dei rais, o dei dittatori del nostro tempo. Quando si sceglie di non guardare, pur di restare in sella.
A settembre aveva avuto un'occasione per redimersi. E non solo l'ha perduta, ma ha persino provato a ribaltare il paradigma parlando di "disinformazione" da parte dei ribelli, definendoli "terroristi" e accusandoli di portare avanti una "campagna" volta a "promuovere gli interessi" del gruppo armato che combatte nello Stato di Rakhine, dove vive un milione di musulmani. "Conosciamo bene cosa significhi la privazione di diritti umani e protezione democratica", aveva assicurato Suu Kyi, e "assicuriamo che tutte le persone sono protette nel Paese". Mentiva. Le immagini che oggi provengono dal Myanmar lo dimostrano con estrema chiarezza.
Con questo nessuno sta negando, o vuole permettersi di dimenticare le crudeltà subite da San Suu Kyi negli anni della detenzione. Le aggressioni fisiche, le intimidazioni e l'isolamento cui fu costretta sono episodi che teniamo bene a mente. Ai suoi familiari non fu mai permesso di visitarla e non poté salutare il marito Michael, quando gli fu diagnosticato il cancro, che di lì a due anni, nel 1999, lo avrebbe ucciso lasciandola vedova. Ma è difficile pensare a un altro leader politico che, più di lei, sia riuscito a tradire il suo passato. Perché se è vero che San Suu Kyi non esercita alcun controllo effettivo sulle forze armate e che la portata delle sue azioni è, ovviamente, limitata, è anche vero che la "paladina dei diritti umani" – come a qualcuno piace ancora definirla – possiede un potere in abbondanza, un potere che nessuno può sconfiggere, un potere libero e, nel suo caso, un potere in grado di cambiare davvero le cose: è il potere di parlare.
San Suu Kyi ha invece scelto qualcosa di ancora più grave del silenzio. Ha negato l'identità stessa delle vittime, chiedendo all'ambasciatore statunitense di non usare il termine rohingya, in linea con la politica governativa di opporsi alla loro esistenza come gruppo etnico. Quando una donna, proprio come lei, ma rohingya, le ha fornito ogni dettaglio sulle violenze subite dai soldati, lo staff di Aung San Suu Kyi ha smentito l'episodio sulla sua pagina Fb. L'esecutivo di cui fa parte ha ostacolato i funzionari delle Nazioni Unite che hanno cercato di indagare sul campo, ha impedito che le agenzie umanitarie distribuissero cibo e medicinali agli sfollati.
E pensare che in una splendida lettera letta alla cerimonia d’assegnazione del Nobel per la Pace, la Signora, com’è comunemente chiamata in segno di rispetto, scrisse: "Non è il potere che corrompe, ma la paura. La paura di perdere il potere corrompe coloro che lo esercitano. La paura della sferza del potere corrompe coloro che vi sono sottoposti". La paura, il nemico è proprio quello. Né il male, né l'odio, la paura. San Suu Kyi oggi, come nessun altro, ha paura di perdere quel che è riuscita ad ottenere dopo anni di insulti e sofferenze. E' comprensibile, ma illegittimo per una persona insignita della più alta onorificenza riconosciuta al mondo. Inaccettabile di fronte allo sterminio di un popolo che non ha colpe, se non quella di credere in un dio diverso.