In memoria di Anna Politkovskaja e di tutte le donne che non tacciono l’ingiustizia
Cinque anni fa si spegneva una voce; una voce che gridava libertà e giustizia. Cinque anni fa un silenzio di ferro cadeva sulla vita e sulla morte di una donna, freddata da un killer a contratto, come ancora troppo spesso accade, solo perché aveva compiuto il proprio dovere, sempre pronta ad andare laddove c’era urgenza di fare chiarezza, raccontare, gridare, affinché la gente sapesse cosa accadeva nel proprio paese: un paese in cui, a dispetto dei tanti cambiamenti repentini sempre gravidi di speranza, la libertà è ancora un miraggio troppo, troppo lontano.
Cinque anni fa, il 7 ottobre del 2006, la giornalista russa Anna Politkovskaja veniva assassinata nell’ascensore del palazzo in cui viveva a Mosca: a finirla fu il colpo alla testa di una pistola Makarov russa, ma quattro bossoli vennero rinvenuti accanto al cadavere. Più di mille persone parteciparono ai funerali di quella donna forte e coraggiosa, mentre il mondo intero si indignava e si addolorava, interrogandosi su un paese, la Russia, dal quale le ombre non si sono mai allontanate e rendendo ancora più forte la percezione collettiva di un luogo in cui il crimine ha ancora il volto feroce dell’indifferenza alla legge.
Anna Politkovskaja era un fuoco di verità ostinato e tenace, al punto che qualcuno pensò di dover ricorrere al più estremo dei gesti per metterla a tacere: «qualcuno», sì, perché la mente che ha ordito le trame che portarono fino a quell’ascensore, probabilmente, non pagherà mai per le sue colpe. Uccisa per le sue denunce di violazioni di diritti civili e di crimini perpetrati dalle forze delle ordine, per tutte le inchieste che, negli anni, ha portato avanti, nella speranza di restituire alla comunità internazionale il vero volto del proprio paese, affinché, un giorno, le cose potessero cambiare.
Abbandonata e sola, in quel vasto e sconfinato territorio, qualche anno prima, quando cercò di recarsi a Beslan, in occasione della strage avvenuta nella scuola, rimase vittima, con tutta probabilità, di un tentativo di avvelenamento, dopo essere riuscita a prendere un aereo che la portasse sul luogo della sciagura: l’ipotesi che le forze dell’ordine agirono in modo da aggravare ulteriormente la crisi degli ostaggi, portando a quel drammatico bilancio di morte, rimase tale, ennesima ombra su quel lontano ed oscuro paese. Sì, l’Europa non è stata in grado di proteggerla.
Un premio porta il suo nome e ricorda questa eroina e viene assegnato annualmente da un organizzazione per i diritti umani, Raw in War (Reach all Women in War); ieri ad essere insignita di questo riconoscimento è stata Razan Zeitouneh, 34 anni, avvocato per i diritti umani e giornalista che ha raccontato le atroci brutalità che il regime di Assad compie nel suo paese, la Siria. Voce essenziale che, attraverso un sito fondato nel 2005, ha diffuso in arabo ed in inglese notizie sullo stato di quel martoriato territorio, divenendo la fonte principale di informazioni relative ad omicidi, arresti e violazioni dei diritti civili durante le proteste contro il governo.
Coraggiosa ed implacabile, è stata costretta a nascondersi e a subire l’orrore dei propri familiari torturati. La sua voce è la voce di un popolo assetato di libertà, dopo una storia di violenze e soprusi subiti: è la voce di chi non si può arrendere ad una realtà in cui anche i diritti fondamentali vengono calpestati, la voce di colei che in tanti hanno provato a zittire ma che sta portando avanti valorosamente la propria battaglia, perché in ogni luogo c’è bisogno di una donna che con la forza della propria parola difenda i più deboli che chiedono giustizia.