Da tredici giorni, l’Iran è attraversato da vaste proteste contro il regime, represse con la consueta durezza. Nel Paese è stato staccato Internet per “ragioni di sicurezza” e almeno 76 persone sono morte durante gli scontri. L’Ayatollah Ali Khamenei garantirà funerali di Stato alle forze dell’ordine rimaste uccise, mentre il governatore della provincia di Tehran Mohsen Mansouri ha detto che verranno presi provvedimenti contro le celebrità che hanno “alimentato il fuoco delle proteste”, come il calciatore iraniano Sardar Azmoun. Le proteste sono iniziate nella città curda di Saqqez, la città natale di Mahsa Amini.
Mahsa Amini aveva 22 anni ed era una ragazza curda in visita a Tehran con la sua famiglia, per andare a trovare dei parenti. Mentre era sulla metropolitana con il fratello, è stata fermata e poi arrestata dalla cosiddetta “polizia della moralità” e condotta in un centro di detenzione. Mahsa non è stata arrestata perché non indossava l’hijab, come prevede la legge iraniana, o perché aveva abiti che rivelavano il corpo, ma semplicemente perché alcune ciocche di capelli fuoriuscivano dal velo. Come ha raccontato la giornalista iraniano-americana Farnaz Fassihi al New York Times, tutte le iraniane conoscono quel famigerato centro di detenzione e sanno che dovranno visitarlo almeno una volta nella vita. Anche lei era stata condotta lì in un’occasione e aveva dovuto giurare che da quel giorno in poi avrebbe sempre rispettato la legge sul velo.
Il comportamento della polizia della moralità è imprevedibile: a volte si tratta di un rimprovero verbale, a volte di una multa. A volte, come nel caso di Mahsa Amini, di un pestaggio che può rivelarsi fatale: ad Amini è stato fratturato il cranio e le foto che sono state divulgate dalla famiglia mentre era in coma in ospedale mostrano chiaramente che perdeva sangue dalle orecchie. Amini è morta il giorno successivo al pestaggio, ma le immagini della sua degenza sono bastate a incendiare la protesta, prima che Internet venisse oscurato. A condurla, le donne, che si sono liberate dal velo, spesso tagliandosi anche i capelli con un gesto fortemente simbolico.
Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio dei diritti umani dell’Onu sulla situazione in Iran, le donne sono trattate come “cittadine di secondo livello”, non potendo partecipare sufficientemente alla vita pubblica e godendo di scarse protezioni contro la violenza domestica. C’è poi il problema del matrimonio infantile, in un Paese in cui l’età minima per sposarsi è di 13 anni. Secondo le stime del governo, ogni anno più di 30mila bambine tra i 10 e i 14 anni vengono date in sposa. Le proteste non riguardano però soltanto la condizione femminile. Non è la prima volta che gli Iraniani scendono in piazza contro il governo: nel 2019, 1500 persone furono uccise durante delle dimostrazioni contro l’aumento del prezzo del petrolio. Oggi, molti si sono uniti alle proteste per la morte di Mahsa Amini a causa della povertà imperante nel Paese, già messo a dura prova dalle sanzioni internazionali prima e dal Covid poi.
Secondo la ricercatrice Chowra Makaremi, intervistata dal Guardian, c’è qualcosa di nuovo in queste proteste: il governo ha sì risposto con grande severità, ma in passato aveva subito messo in campo le Guardie Rivoluzionarie, un corpo dell’esercito fondato dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini particolarmente violento, che ha il preciso compito di sopprimere il dissenso contro il regime. La morte di Mahsa Amini, anche grazie alla risonanza internazionale, ha messo in discussione l’inscalfibilità del regime e proprio il fatto che siano le donne ad aver scatenato la rivolta è particolarmente significativo. L’obbligo del velo, fatto osservare addirittura da una polizia della moralità, è forse l’elemento più palese e riconoscibile dell’interpretazione islamista della religione. Da quando esiste, il regime ha voluto rendere il corpo delle donne uno strumento di propaganda politica per giustificare e rafforzare un potere esclusivamente maschile, da cui le donne devono farsi comandare e giudicare.
La politica iraniana è illiberale e repressiva per tutte le persone che vivono nel Paese. Come ricorda il rapporto Onu, in Iran si verificano continue violazioni dei diritti umani, il dissenso politico è represso col sangue, la pena di morte viene applicata in maniera arbitraria e nelle carceri si verificano molti casi di tortura. Giornalisti, attivisti e sindacalisti invisi al regime, a volte anche stranieri o con doppia cittadinanza, sono imprigionati da anni senza godere dei propri diritti. In questo contesto, il controllo dei corpi delle donne diventa catalizzatore di tutte le politiche di repressione, una specie di promemoria costante – per chi vive nel Paese e per chi lo osserva da fuori – di chi ha in mano il potere.
Dando inizio alla rivolta, le iraniane si sono sottratte a questo controllo, dimostrando ancora una volta che la libertà di una società si misura sulla libertà che le donne hanno di scegliere, di vestirsi come vogliono, di camminare libere per le strade, di indossare i simboli religiosi se e come desiderano. La risposta del regime è arrivata, ma stavolta sta incontrando più difficoltà del solito a farsi sentire, forse anche perché a guidare queste rivolte c’è un soggetto imprevisto.