In Africa è in atto uno sterminio di massa ai danni della popolazione del Tigray
Sono quasi 10o i giorni di guerra nella regione etiope del Tigray, i morti sono oltre 500 mila con 6,5 milioni di feriti e/o bisognosi di un immediato soccorso umanitario, che quasi sicuramente non arriverà in tempo. Gli sfollati all'interno della regione sono più di 2,5 milioni, 62 mila il numero di profughi registrati solo in Sudan. E poi ci sono le cifre incalcolabili: quelle dei dispersi, delle donne violentate e dei bambini privati di un futuro senza incubi. A denunciare gli orrori che in queste ore affliggono il Tigray è un gruppo di giovani tigrini cittadini italiani uniti nel desiderio di far conoscere al mondo quello che sta accadendo nella loro terra: Fatima*, Kande*, Kenyi *, Shabi* e Ashanti* (tutti i loro nomi sono stati modificati per proteggere le famiglie che attualmente si trovano nel Tigray).
Una guerra dimenticata
Da tre mesi, in una regione del Corno d’Africa situata a Nord dell’Etiopia – il Tigray – si sta combattendo una guerra di cui si sa e si parla ancora molto poco. Ciò è dovuto al fatto che dall’inizio del conflitto – il 4 novembre 2020 – la regione è stata “sigillata” e tutte le comunicazioni con l'esterno interrotte: non ci sono associazioni umanitarie né giornalisti a documentare quello che succede. Le uniche fonti di cui avvalersi sono quindi i testimoni oculari sopravvissuti – quelli espatriati e quelli rimasti sul posto ma in contatto con qualche parente all'estero. “Da settimane non riusciamo più a parlare con i nostri parenti” ci spiega Kande*, la cui famiglia è rimasta uccisa durante un bombardamento. Continua: “Sappiamo che le forze armate etiopi ed eritree hanno invaso la regione, che è l'ultima roccaforte democratica in un Paese governato da un sanguinario dittatore. L’esercito di Abiy Ahmed Ali sta attuando una vera e propria pulizia etnica ai danni dei civili disarmati, i nostri cari stanno morendo in massa e nessuno dice o fa nulla”.
Abiy Ahmed Ali, che nel 2019 è stato insignito del Premio Nobel per la Pace per avere parzialmente appianato l'annoso conflitto con l'Eritrea si starebbe quindi macchiando di crimini di guerra contro la sua stessa gente.
Cosa sappiamo di questo conflitto?
Cosa ha portato allo scoppio della guerra? Il Tigray è la regione più settentrionale dell'Etiopa, al confine con l'Eritrea a Nord e il Sudan a Ovest. L'area è connotata da una forte varietà etnica e religiosa, con i suoi 7 milioni di abitanti circa, dei quali la maggioranza è di etnia tigrina e religione cristiano ortodossa, ma sono presenti anche musulmani e cristiani cattolici. Il conflitto che sta interessando il Tigray, comunque, è di natura etnica e non religiosa. Dall'insediamento di Abiy Ahmed Ali nel 2018, la regione rivendica la propria autonomia rispetto al governo centrale, utilizzando il braccio armato del TPLF, che per più di due decenni è stato il partito più potente in Etiopia. Dal canto suo, il primo ministro porta avanti una politica di centralizzazione panetiopica in contrasto con il federalismo etnico alla base del sistema politico del Paese. Le tensioni si sono via via esacerbate e il 9 settembre 2020 nella regione del Tigray erano previste delle elezioni, poi annullate con la scusa della pandemia.
Il 13 novembre 2020 l’agenzia di stampa Reuters, ha riportato la notizia di un documento delle Nazioni Unite secondo cui la polizia etiope stava schedando i civili di etnia tigrina presenti nella Regione. Il governo ha subito negato, specificando che il tracciamento avveniva solo per i ribelli armati del Fronte di Liberazione Nazionale Tigrino e non per i civili. "A dicembre sono riuscito a mettermi in contatto con mio zio che abita in una città che è stata pesantemente bombardata – testimonia Kenyi* – mi ha raccontato di violenze inimmaginabili ai civili e un accanimento disumano sulle donne e sui bambini. Stanno perfino bombardando gli ospedali e le scuole. L’obiettivo è cancellare l’etnia tigrina, radere al suolo la regione al fine di assumerne il pieno controllo”. A Macallè, capoluogo del Tigray, diverse fonti raccontano di aver visto dei droni sorvolare la zona e bombardare i centri abitati. L’intervento dei droni è rilevante non solo per gli effetti devastanti a livello umanitario, ma anche perché implicherebbe la partecipazione nel conflitto degli Emirati Arabi, che dispongono di una base militare all'aeroporto di Assab, in Eritrea.
L’intervento dell’Eritrea e degli Emirati Arabi – che il governo centrale di Addis Abeba continua a negare – dà a questa guerra una connotazione che trascende l’offensiva interna, con un’eventuale attribuzione di responsabilità allargata. Secondo le fonti, sarebbe proprio l’esercito eritreo ad essersi macchiato dei peggiori scempi e delle più gravi violazioni dei diritti umani. Addirittura, nell’ultimo mese sono stati distrutti i campi profughi sorti per accogliere le decine di migliaia di sfollati nella regione del Tigray. A Shimlba e Hitsas più di 1000 strutture di prima accoglienza sono state devastate per impedire di ospitare le vittime del massacro in atto. A ciò si aggiunge l’impossibilità per gli aiuti umanitari di raggiungere la regione, dove quindi non si muore solo sotto le bombe o “sgozzati come polli” (come riporta al Guardian un testimone oculare, n.d.r.), ma anche di fame, sete e mancanza di igiene. “Chiediamo che il mondo non guardi dall’altra parte mentre nella nostra terra d’origine vengono sterminati i nostri padri, le nostre madri e i nostri nonni. All’Italia chiediamo una presa di posizione netta ed inequivocabile contro il genocidio perpetrato dal governo etiope ai danno del popolo tigrino”.
Sull’utilizzo del termine “genocidio” per parlare del conflitto in Tigray, per il momento gli organismi internazionali non si sono espressi in maniera netta, ma l’ONU ha già richiesto un’indagine per crimini di guerra nella regione. “La situazione da tempo è disperata – commenta il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – Naturalmente, nel contesto di un conflitto armato le notizie vanno verificate diverse volte. Ciò è reso difficile dall’impossibilità di accesso per le organizzazioni che fanno monitoraggio sui diritti umani. Quello che però è certo che i civili vittime di questo nuovo scontro armato all’interno della Federazione dell’Etiopia hanno bisogno di giustizia”.