Iman, la neonata morta di freddo in un campo profughi in Siria
Gli occhi neri, enormi per quel visetto ormai spettrale. La bocca spalancata, quasi a voler respirare ancora un po’ d’aria, aggrappata alla vita come solo può essere una creatura di un anno e mezzo. Iman Mahmoud Laila invece non ce l’ha fatta. È morta di freddo all’alba del 13 febbraio nella Siria nord-occidentale. La sua breve esistenza è stata segnata dalla miseria della guerra. Nonostante la sua giovanissima età, Iman era già una sfollata. La sua famiglia era dovuta scappare dalla Ghouta orientale, alla periferia di Damasco, teatro di una feroce battaglia nel 2018. La bambina e i genitori avevano trovato rifugio in un improvvisato centro per sfollati nel villaggio di Ma'rata, a ovest della città di Afrin, nella provincia di Aleppo. Vivevano in una tenda di fortuna, un alloggio insufficiente a proteggere Iman dalle rigide temperature, aggravate dalle forti nevicate di questi giorni. Quando la piccola ha cominciato a soffrire problemi respiratori, il padre ha deciso di portarla all’ospedale Al-Shifa di Afrin, distante pochi chilometri: un viaggio a piedi iniziato alle 5 di una fredda mattina d’inverno. L’uomo ha avvolto la figlia in una coperta e, stringendola al suo petto per darle un po’ di calore, ha camminato per due ore prima di raggiungere la clinica. Purtroppo è stato tutto inutile perché la bimba è arrivata già priva di vita. Secondo quanto ha dichiarato il dottor Housam Adnan, Iman era morta per assideramento un’ora prima, tra le braccia del padre.
“Oggi, di mattina presto, questa bambina è arrivata nel nostro ospedale di Afrin – è il commovente post scritto da Adnan su Facebook – l’ha portata suo padre dalla tenda in cui vivono a pochi chilometri da qui perché era assiderata. Gli ha messo addosso tutto ciò che possiede per tenerla al caldo. Ha fatto tutto il possibile per scaldare il suo cuoricino. L’ha stretta forte e piangendo ha camminato dalle cinque del mattino nella neve e nel vento. Ha camminato con le scarpe logore tra le macerie del suo Paese. I suoi arti erano congelati, ma il suo cuore continuava ad abbracciarla. Ha camminato per due ore prima di arrivare al nostro ospedale. Con grande difficoltà, siamo riusciti a separarlo dalla figlia e abbiamo visto il viso angelico della bambina, sorridente. Ma immobile. Abbiamo provato a sentire i battiti del suo cuore ma era morta! Un’ora fa! Quest’uomo ha portato il corpo della figlia senza saperlo”.
Iman non è stata l’unica giovanissima vittima del freddo. Lo stesso destino è toccato a Abdul Wahhab Ahmad al-Rahhal, un neonato di poche settimane, morto congelato l’11 febbraio. Anche i genitori di Abdul erano dovuti fuggire dalla violenza. Erano originari di Khan Sheikhoun, la città della provincia nord-occidentale di Idlib riconquistata dall’esercito governativo nell’estate 2019. Come per Iman, anche per il piccolo Abdul, che viveva in una tenda nel campo profughi di Atma, sono state fatali le temperature invernali.
La scarsità di combustibile costringe molti sfollati siriani ad utilizzare qualsiasi materiale pur di riscaldarsi: legna, carta e persino plastica vengono bruciate per ottenere un po’ di calore e riuscire così a sopportare le gelide notti passate in aperta campagna o sulle colline. Ma gli effetti possono essere fatidici. Staif Hammadi, sua moglie, e le due figlie Hoda e Hour, sono morti il 13 febbraio per aver inalato monossido di carbonio da una stufa accesa dentro la loro tenda. Gli Hammadi avevano abbandonato la loro casa a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti aerei delle ultime settimane. Vivevano in una tenda nelle campagne attorno alla città di Kafr Rumah. La morte li ha colti nel sonno.
Nel nord-ovest della Siria è in corso una vera e proprio catastrofe umanitaria. Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, dal 1° dicembre sono più di 800mila le persone che hanno abbandonato le loro case in seguito all’escalation di violenza delle ultime settimane nelle province di Idlib e Aleppo. Oltre l’80% degli sfollati sono bambini e donne. Sui campi profughi, inoltre, in questi giorni è caduta un’abbondante nevicata rendendo ancora più difficili le condizioni di vita dei disperati in fuga dalle bombe. Per molte famiglie, infine, non c’è nessun luogo dove rifugiarsi e sono costrette a vivere alle intemperie, in mezzo agli oliveti delle campagne a ridosso del confine con la Turchia.