La rivoluzione di Wikipedia? – Poche settimane fa, in una conferenza all’università del Cairo, il poeta e attivista egiziano Tamim el-Barghouti ha tenuto un discorso sulla rivoluzione in Egitto. Tamim ha detto che la rivoluzione ha rappresentato la sconfitta non solo di Mubarak, ma anche della struttura dello Stato post-coloniale, quello ereditato dai francesi e dagli inglesi, di cui il leader egiziano era il simbolo e, attraverso i suoi legami con le potenze occidentali, il guardiano. Secondo lui, la rivoluzione egiziana avrebbe dimostrato che un altro modo di organizzare le società contemporanee è possibile: quello emerso dalla cosiddetta “Repubblica di Tahrir”. Una società autoregolamentata, senza bisogno dell’intermediazione delle istituzioni moderne, i cui confini erano, per l’appunto, quelli della piazza simbolo delle proteste contro Mubarak. Firas al-Atraqchi, un professore dell’American University del Cairo, ha descritto l’organizzazione di Tahrir a novembre un “nuovo contratto sociale”: una società in cui la responsabilità civile diviene la norma. Ciascuno si occupava volontariamente di qualcosa: gli ultras costituivano l’esercito, decine di dottori provvedevano alle cure, “politici cittadini” si occupavano di garantire l’unità politica e religiosa e una moltitudine di net-attivisti costituivano la stampa. I comunicati ufficiali venivano scritti sullo stile di Wikipedia: uno dei movimenti scriveva la prima bozza che poi veniva fatta circolare presso tutti gli altri che potevano modificare, aggiungere, discutere. Una nuova forma di società: una democrazia partecipativa e non mediata, dove non hai più bisogno né di istituzioni né di parlamenti.
E che per di più funzionava. Non mancava niente in Tahrir. Quando ho chiesto a degli amici attivisti se avessero bisogno di qualcosa, mi hanno risposto ridendo che al contrario ero invitato quando volevo a mangiare da loro (e così ho fatto diverse volte). Avevano tutto in abbondanza: cibo, medicine, computer e così via. La cosa più sorprendente, ha sottolineato ancora Tamim nel suo discorso, è che la rivoluzione egiziana non aveva nessuna guida, nessun leader. Le decisioni venivano prese collettivamente, insieme, e, ancora più sorprendentemente, queste decisioni si sono dimostrate sempre quelle più giuste e più razionali. Come quella di non prendere le armi in una situazione in cui sarebbe stato facile e in cui la tentazione era quanto mai grande. Insomma una “folla intelligente”, il capovolgimento del senso comune che vuole che le decisioni prese collettivamente siano viziate da lentezza, irrazionalità ed emotività.
Il primo ad aver insistito su questo punto è stato probabilmente Wael Ghonim, ingegnere informatico, responsabile del marketing di Google in Medio Oriente e Nord Africa e, alla fine, attivista di primo piano della rivoluzione egiziana. Durante un suo discorso a un TED Meeting tenuto al Cairo appena dopo la rivoluzione, Wael ha detto che la rivoluzione egiziana è stata la prima “rivoluzione 2.0” dove “nessuno è stato un eroe, perché tutti lo sono stati”. L’ha chiamata la “rivoluzione di Wikipedia”, perché ognuno può offrire le proprie competenze agli altri, senza nessuna gerarchia predefinita. Tutti sullo stesso piano.
La temporanea sconfitta della “politica dei network”- Eppure, a distanza di un anno da quella rivoluzione, una serie di eventi sembra mettere in dubbio alcune certezze di questa cyber-utopia di stampo mediorientale. In Egitto, i movimenti di piazza per ora si sono ritirati, lasciando spazio a una politica più tradizionale dove partiti, istituzioni ed elezioni sono tornati a giocare il ruolo più importante. Le forme dello Stato post-coloniale, in altre parole, si sono prese immediatamente la propria rivincita. La frattura tra Egitto da una parte e Tahrir dall’altra è divenuta sempre più evidente negli ultimi mesi. Sebbene gli attivisti se ne fossero accorti da tempo, sono stati incapaci di porvi rimedio. Ancora oggi molti egiziani non comprendono perché i rivoluzionari siano continuati a scendere in piazza anche dopo la caduta di Mubarak. Le elezioni e la vecchia politica sono considerate dalla stragrande maggioranza la via migliore e più sicura per la democratizzazione. Certo, i movimenti di piazza e la cosiddetta “politica dei network” hanno certamente ottenuto delle vittorie impensabili, tra cui vanno ricordate, almeno, la caduta di Mubarak e successivamente una data ufficiale per le elezioni presidenziali. Eppure la ritirata ha il sapore di una sconfitta. L’amarezza tra gli attivisti è molto diffusa. Ci si accusa reciprocamente e l’insofferenza verso certe star della rivoluzione è palpabile. I movimenti appaiono divisi e indecisi sul da farsi. La loro strategia per il futuro è poco chiara. Le tanto mediatizzate star della rivoluzione, blogger, attivisti internet, citizen journalist, e altri, non sembrano più poter svolgere quel ruolo di connettori tra movimenti che avevano svolto prima e durante la rivoluzione. Soprattutto, sono essi stessi ad apparire disconnessi sia da chi ha continuato a scendere in piazza dopo la caduta di Mubarak sia, soprattutto, dal resto del paese.
La cyber-utopia mediorientale sta fallendo? – Dietro questa parziale sconfitta ci sono molte ragioni. Ma a mio parere una di queste risiede nell’inganno di poter fare una rivoluzione “senza organizzazione”: una concezione nuova della politica che mette al centro social media, internet, e un nuovo tipo di attivismo. Certo una sorta di organizzazione c’è, ma è fatta di legami deboli, flessibili, nuove forme di aggregazione e di comunità. Un’organizzazione a tempo di Twitter. Uso Twitter, quindi esisto politicamente. Uso Facebook, quindi sto organizzando. E così via. Le idee di Tamim el-Barghouti e Wael Ghonim sono in parte il frutto di questa nuova cultura politica. Sono idee entusiasmanti ma che, a lungo andare, mostrano i propri, enormi, limiti. Non si può pensare che l’esperienza di Tahrir possa essere estesa all’intero Egitto, un paese di 80 milioni di abitanti. Non si può liquidare lo Stato moderno così su due piedi. Quanto alla definizione di “rivoluzione di Wikipedia”, bisognerebbe prima di tutto dire che non è stata una rivoluzione, non ancora. È stata una rivolta. L’esperienza dell’Egitto ci ha fatto vedere quanto i social media possano essere efficaci strumenti per mobilitare gente e per far cadere un regime. Ma non sappiamo ancora che impatto abbiano quando si tratta di costruire una democrazia e nuovi tipi di valori.
L’attuale difficoltà dei rivoluzionari egiziani, privi di organizzazione, spesso troppo impegnati a scrivere su Twitter, ad andare a convegni negli Stati Uniti e a ricevere importanti premi in Europa, risiede anche in questa eccessiva fiducia (o dipendenza) nei social media e nelle forme di interazione politica verso cui questi media li spingono. Se prima era sufficiente essere contro Mubarak, il gioco democratico attuale è tutta un’altra cosa. E i nuovi media possono spingere verso la frammentazione; l’individualizzazione; la sensazione che basti avere 20.000 followers su Twitter per contribuire in qualche modo; e, infine, la tentazione di seguire gli eventi minuto per minuto, magari interagendo con persone lontane migliaia di chilometri, invece di costruire qualcosa che richieda una continuità e dei tempi differenti e che sia molto più ancorata al territorio, come si faceva con i vecchi movimenti. Tutti gli attivisti negherebbero di non sapere queste cose, eppure l’impressione è che siano risucchiati ormai quotidianamente da questo tipo di dinamiche. È come un fumatore che sa che il fumo fa male, poi si sveglia e fuma.
Come ha scritto recentemente un attivista egiziano: “Dopo che Mubarak ci ha lasciato, i rivoluzionari si sono divisi in tre gruppi: uno è rimasto chiuso nel suo mondo fantasy di Twitter/Facebook; il secondo, disgustato dal primo, ha deciso di aspettare nelle strade, pronto a partecipare appena chiamato in causa; e un terzo ha provato a mettere insieme delle proposte socio-politiche, ma non sono riusciti a capire come mantenere intatto il movimento”.
Ripeto, ci sono molte ragioni dietro i problemi che la rivoluzione egiziana sta affrontando adesso. E forse i difetti legati alle nuove forme di comunicazione dell’era digitale non sono neanche quella più importante. Eppure, a mio parere, questo è uno dei fattori. Che si può riassumere in questa affermazione di Jean Dean, esperta di media digitali: “Bloggare è parassitario, narcisistico e inutile, ed è per questo che sempre più utenti internet in tutto il mondo usano i blog”. Jean Dean è anche una blogger, ma questa affermazione l’ha scritta in un libro.