Il presidente Morsi alla svolta autoritaria – L’Egitto torna in piazza
Sono trascorsi quasi due anni da quando l'indignazione e la rabbia del popolo egiziano hanno costretto Hosni Mubarak a lasciare il trono a cui è rimasto incollato per trent'anni. Le ragioni di quella rivolta sono state, essenzialmente, la corruzione del governo Mubarak, la mancanza di trasparenza, l'assenza di processi pienamente democratici, il disgaio giovanile, la povertà e la fame, l'accentramento del potere nelle mani del presidente e dei suoi feldmarescialli. Al posto dell'ergastolano Mubarak, da appena cinque mesi, siede Muhammad Morsi, leader del Partito Giustizia e Libertà; organizzazione politica che fa esplicito riferimento ai Fratelli Mussulmani. Morsi aveva promesso l'istituzione di uno stato non teocratico ma attento alla Shari'a (ovvero alla Legge Coranica), la totale discontinuità con il suo predecessore e il rispetto della rivoluzione. Appare perciò comprensibile che, al primo passo falso del neo-presidente, la popolazione sia tornata ad affollare le piazze, mettendo a ferro e fuoco la città e affermando che Morsi è come Mubarak.
Ma cosa ha fatto Morsi perché la popolazione egiziana si infuriasse fino a questo punto? A poche ore dal primo successo diplomatico della sua presidenza – ovvero la difficile azione diplomatica tra il governo israeliano e Hamas di cui è stato protagonista – Muhammad Morsi ha pensato bene di avere l'autorevolezza necessaria per decidere di concentrare più potere nelle sue sole mani. Peccato che la popolazione egiziana non la pensi lo stesso modo. Qualcuno aveva già sollevato perplessità a proposito dell'acceso protagonismo del leader egiziano nelle trattative israelo-palestinesi, ma – inizialmente – l'idea era quella che il leader di Giustizia e Libertà fosse alla ricerca di una maggiore credibilità sul piano internazionale. Ora – alla luce di quanto accade in queste ore – la ragione di tanto attivismo sembra più nazionale che internazionale e riguarda la scelta del presidente di varare un decreto che rende inappellabili e immediatamente esecutive le decisioni presidenziali. Uno status che fa somigliare il presidente più a un dittatore che al rappresentante di una compagine democratica eletta dal popolo.
Il popolo egiziano ne è ben cosciente e – fresco di una rivoluzione che, per molti dei suoi protagonisti, è rimasta incompiuta- assedia le sedi del partito Giustizia e Libertà e si riversa ancora una volta in piazza Taharir, al Cairo, dove la polizia tenta di arginare le proteste sparando lacrimogeni dai vicoli. Già molti scontri si registrano dopo circa quattro ore dall'inizio di questa nuova ondata di proteste. Secondo le prime stime, i dimostranti che affollano le strade sono almeno quindicimila. Stavolta, però, sembra essere Alessandria la città più colpita in termini di scontri. I dati in arrivo dall'Egitto parlano di cinquanta feriti, provocati principalmente dalle fitte sassaiole e dalle frequenti risse che intercorrono tra i detrattori e i sostenitori del presidente Morsi.
Muhammad Morsi prova a dar senso alle sue azioni affermando che la giustizia egiziana è ancora corrotta dalla presenza/assenza di Hosni Mubarak e che – quindi – per mettersi al riparo da rappresaglie politiche da parte di alcuni giudici (e di uno in particolare) non poteva fare altro che assumere su di sé la responsabilità di alcune scelte. Morsi ha provato ad affermare che il decreto, oggetto delle proteste, resterà in vigore "fino all'approvazione della costituzione e all'elezione di una nuova assemblea del popolo", ma il popolo non sembra disposto ad accordargli fiducia. Il neo-presidente, però, fa evidente affidamento sull'appoggio (o almeno sul placet) di Barack Obama, certo che questi gli riconosca un ruolo fondamentale nel quadro del costante sforzo diplomatico necessario ad alimentare il dialogo in Medio Oriente.
Di fatto, tra gli obiettivi presidenziali, c'era effettivamente quello di far fuori il procuratore generale – Abdel Moneim Mahmoud, eredità del regime Mubarak – che lo scorso ottobre si era rifiutato di dimettersi. Ma appare evidente come l'enorme potere che Morsi ha voluto accentrare su di sé, abbia anche l'obiettivo di azzerare il valore politico delle opposizioni che – infatti – sono insorte in massa. A poco è servito – all'interno della dichiarazione costituzionale che conteneva anche la legge oggetto delle proteste – fare esplicito riferimento alla rivoluzione del 25 gennaio 2011. È vero, infatti, che tramite l'inserimento di due articoli ad hoc sarà possibile riaprire le indagini riguardo le uccisioni dei manifestanti e incriminare per terrorismo anti-rivoluzionario "chi deteneva incarichi politici od operativi sotto il precedente regime", ma il regolamento di conti che Morsi ha messo in piedi con il precedente regime non basta perché il popolo egiziano accetti che a quella dittatura se ne sostituisca un'altra.
In seguito alla decisione presidenziale, Samir Morcos – copto e assistente di Morsi per la transizione democratica – ha annunciato le sue irrevocabili dimissioni, da più parti il neo-presidente viene accusato di "tradire la rivoluzione", attivisti e opposizione sono sul piede di guerra. Ciononostante Morsi prova a tenere a freno le rappresaglie ripetendo che il suo unico intento è quello di "preservare la patria e la rivoluzione"; che "nessuno – né chi è a piazza Tahrir, né nessun altro – si può prendere il merito della rivoluzione"; che sta facendo il suo dovere "in nome di Allah e della nazione"; che prende "qualsiasi decisione dopo essersi consultato con tutti"; ma qualunque cosa dica è davvero difficile che un popolo che ha lottato per mesi in nome della giustizia sociale e della democrazia – oggi – accetti di fidarsi di qualcuno che si "autoproclama faraone". La spinta per il rinnovamento è troppo forte per essere sedata e, forse, è arrivato il momento perché la rivoluzione mancata si compia fino in fondo, regalando all'Egitto un governo pienamente e finalmente democratico.