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Guerra in Ucraina

Il nuovo impero russo è il vero obiettivo di Putin, e per raggiungerlo è disposto a perdere tutto

La Russia è stato un impero per quasi settecento anni e ha smesso di esserlo solo con la fine dell’Urss. Quel che sta facendo Putin in Ucraina ha radici antiche: ed è l’unico modo che la Russia conosce per rapportarsi al mondo.
A cura di Fulvio Scaglione
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Ringraziamo Pietro il Grande, lo zar che nel 1703 fondò San Pietroburgo (in origine Sankt Peterburg, in olandese, Paese e popolo che lo zar ammirava) e che aveva avuto il buon gusto di nascere giusto 350 anni fa. Con la scusa dell’anniversario, e delle grandi feste correlate (vuoi mettere l’esaltazione di un padre fondatore proprio mentre la Russia combatte?), Vladimir Putin ha ricordato le guerre combattute da Pietro e le ha paragonate alle sue. Le une e le altre, dice lui, guerre di riconquista e non di conquista. In questo modo, però, ha messo fine alle povere chiacchiere sulla volontà di ricostruire l’Urss che ci tormentavano da anni e ha portato l’attenzione su un tema assai più serio e interessante: la Russia si sente un impero? Di conseguenza, ha una politica imperialista? L’invasione dell’Ucraina rientra in questa politica?

Sull’Urss, Putin disse tutto quel che, dal suo punto di vista, c’era da dire con la frase “Un russo che non ha nostalgia dell’Urss è senza cuore, ma un russo che pensa di farla rinascere è senza cervello”. Poche e sentite parole per chiudere la questione. Ma con l’impero è tutta un’altra storia. Per una lunga serie di ragioni.

La prima è che la Russia moderna è nata nella forma dell’impero, annettendo via le piccole città-Stato e i principati che incontrava sulla strada della sua espansione. E la cosa prese un respiro ancora più ampio a partire dal 1380, cioè dalla battaglia di Kulikovo, quando per la prima volta i russi inflissero una pesante sconfitta all’Orda d’Oro, la potenza tatara che si era insediata nelle terre russe come erede dell’impero (appunto) mongolo. La Russia cominciava a diventare un impero multirazziale e multiconfessionale. Sviluppo che divenne conclamato nel Cinquecento, cioè proprio quando nell’Europa del Rinascimento si affermavano i primi embrioni, di quelli che sarebbero infine diventati Stati nazionali. Da allora la Russia è stata sempre un impero. Con gli zar e le zarine, da Pietro il Grande (il primo a fregiarsi del titolo di imperatore) a Caterina II (che combattè a Nord. Ovest e Sud, allargando i territori portando la Russia nel novero delle potenze europee) ad Alessandro II (che comprò la Manciuria dalla Cina e vendette l’Alaska agli Stati Uniti). E, ovviamente, anche con il potere sovietico: che cosa fu Stalin se non uno zar, capace di conquistare spazi, organizzare Stati vassalli e valvassori e spostare popoli qua e là secondo il proprio volere?

A ben vedere, quindi, la Russia cessa di essere un impero solo nella notte del 31 dicembre 1991, quando l’Urss venne ufficialmente sciolta. Cessa di esserlo ma non di sentirsi tale. D’altra parte, come definire uno Stato come la Russia che è vasto poco meno del doppio del Canada e della Cina (i Paesi che la seguono per dimensione) e più del doppio degli Usa? Una terra che tocca tre continenti? Un Paese dove il 20% della popolazione è tuttora formato da non russi? Dove la seconda religione più praticata è l’islam (la prima, ovviamente, il cristianesimo ortodosso) e la terza il buddismo? Dove ci sono 30 lingue dotate di uno status ufficiale? E poi come eliminare quel Dna imperiale che si è tramandato nei secoli e ha attraversato i più diversi regimi.

La storiografia ufficiale, in questo periodo impegnata a supportare le decisioni politiche del Cremlino, pone molto l’accento sul fatto che tutte le invasioni della Russia sono arrivate da Occidente: gli svedesi nel Medio Evo (e Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod, che li sconfisse sul fiume Neva è stato fatto anche santo dalla Chiesa ortodossa), i polacchi nel 1610, Napoleone Bonaparte nel 1812, l’impero austro-ungarico nel 1915, Hitler nel 1941. E anche, nella narrazione putiniana, la Nato che si espande verso Est usando l’Ucraina.  L’impero e la sua “profondità”, e quindi anche un’eventuale conquista di tutta o parte dell’Ucraina, servirebbero a proteggere la Russia nella direzione sempre usata dai suoi tradizionali nemici. Ma Putin e i suoi non sono così primitivi da non sapere che tutta quella “profondità” (la lunga marcia che stroncò le armate di Napoleone e Hitler, arrivati a Mosca e poi costretti a ritirarsi) è oggi resa inutile da qualunque missile balistico, capace di portare una bomba atomica per migliaia di chilometri.

E allora perché questa guerra così crudele e in apparenza inutile? Può servire, per provare a rispondere, un lungo passo indietro, fino alle origini del potere di Vladimir Putin. Il 24 marzo del 1999 l’allora primo ministro Evgeny Primakov sta volando verso Washington. Deve incontrare il presidente Bill Clinton per trattare sulla Jugoslavia, le politiche del leader serbo Slobodan Milosevic, gli equilibrii nei Balcani. A metà del volo gli arriva una notizia: gli Usa hanno cominciato a bombardare la Serbia senza nemmeno avvisare la Russia. Uno smacco, un’umiliazione senza pari. Primakov ordina al pilota di invertire la rotta e torna a Mosca con la coda tra le gambe.

Ma la cosa non finisce lì. Tre mesi dopo, il presidente russo Boris Eltsin licenzia Primakov e mette al suo posto il semi-sconosciuto Vladimir Putin. Quattro mesi dopo è lo stesso Eltsin a dimettersi. Passano altri tre mesi e il giovane premier Putin diventa a sua volta Presidente. Quello è il clima in cui Putin raggiunge il vertice del potere. E la sua carriera matura nella convinzione tra che tra le potenze, tra i grandi Paesi, la postura imperiale e la pratica dell’imperialismo siano la norma. La guerra americana nei Balcani per la Russia, e forse non solo per lei, è una guerra imperiale, quella con cui l’impero americano smonta e rimonta una regione del mondo cruciale e dove la Russia aveva legami importanti vecchi di secoli. E Putin, che già come dottorando all’Università di San Pietroburgo aveva prodotto una tesi sul ruolo dello Stato e sull’importanza delle materie prima come arma del confronto internazionale, non ha bisogno di altre conferme. La sua prima decisione di peso, da primo ministro, è stroncare la ribellione cecena con una guerra feroce. Una questione interna alla Russia, ma non solo: molti, al Cremlino, sono convinti che dietro l’indipendentismo ceceno ci sia la lunga mano degli Usa, che lo fomentano e lo finanziano attraverso i Paesi alleati del Golfo Persico, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in primo luogo.

Quello che noi chiamiamo imperialismo, quindi, per molti russi è il modo naturale di essere delle grandi potenze rivali. E da allora, per un colpo battuto dagli Usa ce n’è uno battuto dalla Russia. La Georgia fa oleodotti e alleanza con gli Usa? Nel 2008 arrivano i carri armati russi. L’Ucraina ispirata e finanziata dagli Usa si ribella al patronato di Mosca? Nel 2014 la Russia si riprende la Crimea e fa sollevare il Donbass. Gli Usa vogliono abbattere Bashar al-Assad in Siria? Nel 2015 intervengono i russi. E così via.

Naturalmente c’è un punto debole nell’atteggiamento russo e nella strategia putiniana. Imperialisti sì, ma non solo: gli Usa basano il loro potere non solo sulla forza militare ma anche sullo sviluppo tecnologico, sulla costruzione del benessere, sul mix interculturale, sull’industria culturale, insomma sulla capacità di costruire un modello attraente di vita e di costume. Il cosiddetto soft power. La Russia, almeno finora, non ne è stata capace. L’economia, basata sull’esportazione di materie prime, soprattutto gas e petrolio, è controllata dallo Stato e ben poco inclusiva. Le tecnologie sono avanzate nel settore militare ma il resto è tutto di produzione occidentale o cinese. Il nazionalismo spinto fa a pugni con l’attrazione del diverso. Roma faceva le guerre ma il suo impero raggiunse l’apogeo offrendo l’ambita cittadinanza ai “barbari”, non prendendoli a cannonate. E Putin, che affronta spesso temi storici, dovrebbe saperlo.

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