“Il mio lavoro nell’ospedale di Rafah, dove ogni giorno sento le urla disperate dei bimbi feriti”
Mentre, secondo i media internazionali, l'esercito israeliano è pronto per entrare a Rafah – che ritiene l'ultimo bastione di Hamas a Gaza – arriva a Fanpage.it proprio dalla città al Sud della Striscia la testimonianza di Davide Musardo, psicologo che si trova sul campo con Medici Senza Frontiere:
"Il suono incessante dei droni e delle esplosioni ci sveglia ancor prima dell’alba. Seguono i suoni cupi e non troppo distanti dei bombardamenti aerei e perfino alcuni dei carrarmati israeliani. Il pianto di un bambino è un chiaro segno di questo brusco risveglio e della sua naturale paura nel rivivere ancora una volta una notte di terrore.
Nel mentre ci prepariamo per raggiungere il nostro ospedale, il pensiero corre ad immaginare i visi delle persone colpite, il loro dolore, la perdita.
Siamo a sud della striscia di Gaza, a Rafah precisamente, una piccola città che un tempo ospitava circa 250.000 persone e che, adesso, ne ospita più di un milione e mezzo in fuga dai paesi colpiti e in cerca di riparo. Le strade sono piene di tende, piccole baracche in cui si cerca di racimolare un po’ di denaro per poter sfamare la propria famiglia. Le code ai punti di raccolta dell’acqua sembrano interminabili. I bambini corrono scalzi per le strade impolverate, alcuni si danno da fare nel trasportare improvvisati carrettini con una tanica di acqua al loro interno. Altri cercano i nostri sguardi all’interno delle nostre auto, un cenno, un saluto, un piccolo gesto di umanità.
Il nostro ospedale si trova nel cuore della città, ed è chiaramente un viavai di persone che si affrettano a supportare i loro cari ricoverati nei nostri reparti. I letti sono tutti occupati, giovani adulti, anziani, bambine e bambini dai visi provati. Hanno ferite alle mani, alle braccia, alle gambe, sui loro volti. Alcuni hanno subito un’amputazione, altri hanno bisogno di un tutore esterno per fissare la frattura causata dall’impatto esplosivo. Il dolore si percepisce nelle loro espressioni. E non è solo un dolore fisico.
Tutti hanno una storia, una storia troppo triste anche per essere raccontata. Genitori che hanno perso i loro figli e bambini che hanno perso i loro genitori, sorelle e fratelli… Ad ogni approccio, alla consueta domanda sul come stai oggi, tutti rispondono “Kullu tammam, Alhamdullah” (tutto bene, grazie a Dio) per poi ritornare cupi nei loro volti e voler condividere con te le foto dei propri bambini, o l’ultima foto tra mamma e papà, per non aver avuto il tempo di salutarli, di proteggerli e, per certo, per non dimenticarli.
Nella confusione del reparto pediatrico sento delle urla, sono grida per lo più disperate. Vedo un viso dolce di una bambina di 10 anni circa, segnato dalle lacrime. Cammina per la stanza e il mio interprete mi riferisce che urla a tutti che non riesce a respirare. È in pieno attacco di panico e sembra non esserci modo di calmarla. Il dolore fisico delle ustioni, che riporta sulla parte alta del suo corpo, innesca inevitabilmente una ferita psicologica legata ai vissuti traumatici di una violenza atroce.
Il team del reparto di Salute Mentale riesce ad intervenire nel migliore dei modi e da subito, la bambina, inizia a controllare meglio i suoi attacchi di panico, facilitando in questo modo tutte le sessioni di bendaggio e le cure mediche dovute. Adesso la chiamiamo dottoressa perché sta imparando quasi a gestire i suoi attacchi, attraverso il gioco, la proiezione dei ruoli e la comprensione del suo dolore. Di certo non è semplice e richiederà del tempo e cure adeguate così come avrà bisogno di un cessate il fuoco permanente, in cui poter riprendere la sua vita, i suoi giochi e, perché’ no, i suoi sogni… come quello di diventare dottoressa quando sarà grande".