Il giudice che ha deciso che l’emoji con il pollice in su vale come una firma
Praticamente tutti coloro che usano un cellulare e hanno un minimo di dimestichezza con le app di messaggistica si ritrovano a utilizzare di continuo, fra una comunicazione e l’altra, le cosiddette emoji, le “faccine” ormai diventate linguaggio universale e chiaro.
E dal Canada arriva una storia che nasce proprio da una emoji, quella del pollice in su, e che è costata oltre 61mila dollari – pari a circa 42mila euro – a un agricoltore. Cosa è successo?
Questo agricoltore, Chris Achter il suo nome, aveva ricevuto una proposta di contratto per la fornitura di un'importante quantità di cereali. Nella mail si leggeva: "Si prega di confermare” e lui ha risposto con una emoticon, appunto quella del pollice in su.
Per l’azienda, in questo modo stava accettando il contratto. E quando nel periodo stabilito la merce non è arrivata, l'impresa ha fatto causa all'agricoltore, chiedendo anche i danni. Lui si è difeso sostenendo che l'emoji con il pollice in su corrispondeva solo alla conferma di avere ricevuto la mail ma che non aveva ancora firmato il contratto.
Un giudice, al contrario, ha ritenuto l'emoticon come una vera e propria firma. "La Corte riconosce che non è un modo tradizionale di firmare", ha scritto nella sentenza, "ma in queste circostanze resta valido”.
Il rappresentante della azienda ha dichiarato nei documenti di aver stipulato almeno altri quattro contratti con Achter tramite sms e che l'unica differenza questa volta era stata che l’uomo aveva risposto con un'emoji invece di "ok".
"La Corte non può, né dovrebbe, tentare di arginare la tecnologia", ha scritto il giudice nella sentenza, spiegando che questa è "la nuova realtà" con cui i tribunali dovranno ormai sempre confrontarsi.