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Il generale Bertolini spiega quali potrebbero essere le prossime mosse di Israele dopo l’attacco di Hamas

Israele si sta preparando alla guerra e di fronte all’eccezionalità dell’attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre è attesa una reazione senza precedenti. Il generale Marco Bertolini, intervistato da Fanpage.it, ha riflettuto sui prossimi passi che il governo e l’esercito israeliano potrebbero compiere nei prossimi giorni.
Intervista a Marco Bertolini
Generale, ex numero uno del Comando operativo di vertice interforze, del reggimento d'assalto paracadutisti "Col Moschin" e della Brigata Folgore.
A cura di Eleonora Panseri
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Israele si sta preparando alla guerra, come ha annunciato il presidente Benjamin Netanyahu in un breve messaggio video diffuso sui suoi account social aggiungendo: "Il nemico pagherà un prezzo che non ha mai conosciuto". È attesa quindi una reazione senza precedenti del Paese dopo l'attacco sferrato da Hamas alle prime dell'alba della mattina di sabato 7 ottobre.

Intervistato da Fanpage.it, il generale Marco Bertolini, ex numero uno del Comando operativo di vertice interforze e del reggimento d'assalto paracadutisti "Col Moschin" e Brigata Folgore, ha riflettuto sui prossimi passi che il governo e l'esercito israeliano potrebbero compiere nei prossimi giorni.

Il generale Marco Bertolini
Il generale Marco Bertolini

Generale, secondo lei, quali saranno le prossime mosse di Israele?

Come si muoverà, è molto difficile dirlo. Intanto, dobbiamo partire dal presupposto che Israele ha subito un colpo fenomenale alla sua credibilità e a quella del suo strumento militare. L'attacco che ha ricevuto da parte dei miliziani di Hamas da Gaza non si è limitato a qualche missile, come in precedenza. Ma a un attacco portato avanti con 2mila razzi e un'incursione di centinaia di miliziani. Si tratta di una novità non indifferente. Israele ha la nomea di essere titolare del più efficace servizio segreto del mondo, il Mossad, eppure si è fatto sorprendere da queste azioni.

E questo potrebbe portare a delle considerazioni: alcuni pensano a un'azione prevista e consentita. Io non mi voglio esprimere su questa eventualità, ma è comunque incredibile come il Mossad, che ha moltissimi occhi e orecchie all'interno di Gaza e nel mondo arabo, non abbia colto che in un'area così popolata di miliziani e civili si stesse preparando un'azione così complessa. Anche se è quello che è successo. E questo è un aspetto psicologico importane.

Perché? In che senso?

La deterrenza di Israele nei confronti degli arabi è dovuta, in larga parte, al fatto che è l’alleato per antonomasia degli Stati Uniti nell’area. Ma anche per la sua superiorità in termini di intelligence e capacità militari non indifferenti. A questo punto, per ripristinare la credibilità, deve fare qualcosa. Ma fare qualcosa adesso è difficile. Perché in questo caso non si tratta semplicemente di respingere un'incursione o liberare qualche ostaggio. Oggi gli ostaggi sono davvero molti rispetto al passato, si tratta di salvare molte persone, probabilmente distribuite in tutta Gaza dai miliziani di Hamas, proprio per difendersi da eventuali reazioni indiscriminate.

E tutto ciò pone Israele di fronte a una situazione veramente difficile. Non potrà semplicemente dire ‘trattiamo', dopo il colpo che ha subito. In condizioni normali lo scambio di prigionieri sarebbe la soluzione più semplice. Ma non penso sia questo il caso, almeno nel breve periodo. Potrebbe però succedere qualcosa che sparigli tutto e questo potrebbe essere l'apertura di un altro fronte, come il confine con il Libano, la Cisgiordania o una operazione contro l'Iran. Uno scenario del genere relativizzerebbe anche la perdita di ostaggi nella striscia di Gaza.

Da un punto di vista tattico, la cosa prioritaria che probabilmente cercherà di fare, sarà respingere le incursioni nel territorio, rafforzare il proprio confine con il Libano, così da tenere fuori Hezbollah dalla contesa. Ma il problema grosso da risolvere è proprio quello degli ostaggi.

Lei quindi come interpreta il richiamo di 300mila riservisti da parte di Israele?

Israele si sta preparando a una guerra vera però questa non può essere condotta semplicemente "asfaltando" Gaza. Si tratta di un'area nella quale vivono circa un milione di persone. Quello che si dovrà fare sarà, prima di tutto, difendere i propri confini a Nord, respingere eventuali ulteriori incursioni nel territorio. Onestamente una guerra a Gaza con tutti questi ostaggi la vedo problematica. A meno che Israele non accetti di avere grosse perdite tra i prigionieri e fare una strage nella popolazione palestinese della Striscia che non potrebbe essere ignorata a livello internazionale, soprattutto da parte dei paesi arabi.

Gli ostaggi restano quindi un elemento che cambia del tutto il quadro?

Sì, quello degli ostaggi è il vero nodo. Senza di loro Israele avrebbe mano libera ad “andare giù duro” come, per esempio, già fatto con l'operazione "Piombo fuso" del 2008: un’operazione dal nome autoesplicativo. Ora un'operazione del genere non può essere fatta perché coinvolgerebbe automaticamente anche gli ostaggi. È vero che la guerra di solito compatta un Paese internamente ma è anche vero che il quadro politico israeliano è percorso da forti tensioni e divisioni che potrebbero acuirsi ulteriormente di fronte a un bagno di sangue.

Quali potrebbero essere gli elementi che spingerebbero Israele a una scelta estrema?

Un grosso problema potrebbe essere l'Iran. Se Israele dovesse pensare di agire contro l'Iran, si aprirebbe il "vaso di Pandora" e si potrebbe arrivare a uno scontro veramente generalizzato. L'Iran è alleato della Russia in Ucraina; la Russia è presente in Siria a fianco di Assad, dove Israele interviene regolarmente contro le forze di Damasco già fronteggiate da Isis e Al Qaeda. E l'Iran supporta Assad. Proprio per isolare la Siria dall’Iran, gli Usa sono presenti con loro basi sulla riva sinistra dell’Eufrate e a sud est di Damasco. Un intervento contro l'Iran andrebbe quindi ad alzare un polverone che renderebbe difficile mantenere il conflitto contenuto.

E poi c'è un pericolo per Israele, per quanto riguarda i Paese arabi. C'è la questione del "patto di Abramo" con l'Arabia Saudita, grande successo di Trump ora a rischio. I sauditi di fronte a questa cosa dovranno infatti prendere posizione e difficilmente lo faranno contro i palestinesi. E poi ci sono i paesi limitrofi di Israele dove da tre quarti di secolo vivono normalmente in condizioni di indigenza assoluta centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti dalla Palestina. Per questi, con particolare riferimento a Libano, Siria, Giordania, Egitto, gli Emirati, sarà difficile sottrarsi ad una pressione popolare che non ha mai nascosto la propria simpatia per l’irredentismo palestinese. E poi c’è la Turchia, il cui presidente Erdogan ha aggiunto la sua voce a quella di Putin nel chiedere una pace basata su due Stati nei confini del 1967. E questo a Tel Aviv non devono averlo apprezzato.

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