Il figlio si è dato fuoco per la libertà del Kurdistan: la storia di Hayrettin, rifugiato in Grecia
Hayrettin vive con quello che è rimasto della sua famiglia, moglie e figlia, in una fabbrica di ex minatori occupata dal 1946 da rifugiati politici e richiedenti asilo. Siamo a Lavrio, quaranta minuti di macchina da Atene verso sud. Qualcuno descrive questa fabbrica occupata come il primo campo profughi d'Europa. La stanza di Hayrettin è grande 4 metri per 8. Dentro c'è tutto: letti, televisione, una scrivania, un fornellino, qualche quadro, un frigorifero.
È un rifugiato politico, un perseguitato. Un uomo in fuga dal suo Paese, che ufficialmente non esiste, perché il figlio ha deciso di immolarsi per la libertà del suo popolo: i curdi. "Si è martirizzato dandosi fuoco in protesta di un meeting europeo tra la Merkel e Erdogan, da quel giorno sono dovuto scappare dalla Turchia, e la mia vita si è avvelenata per colpa di questa terribile perdita". Sua moglie si presenta, chiede se cortesemente la possiamo chiamare "mamma". Accettiamo.
"Qui, il governo greco non vuole tanto bene ai rifugiati, ci sono molti problemi", spiega Hayrettin, "mi piacerebbe andare da qualche altra parte ma non so dove e come andare. Sono scappato per mettere in salvo la mia famiglia, non capisco come e cosa devo fare per trovare un posto pacifico e libero per me, la mia gente e il mio popolo". La lente d'ingrandimento con cui cerca di farsi spazio tra i suoi racconti, sembra essere determinata nel ribadire una ed una sola cosa: "il valore della libertà".
Non per lui, "ma per la mia famiglia e la mia gente. Mi piacerebbe che il mondo decidesse di vivere in pace, mettendo fine alla violenza e alla sopraffazione". Gli chiedo cosa sia per lui la libertà. "Per me la libertà è il diritto di tutti a vivere una vita vera, dormire tranquillo e volare libero come gli uccelli in cielo".