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Il dramma di Fatima, stuprata e incinta: “Non so se il padre è mio marito o quel soldato”

Fatima, una ragazza Rohingya di 17 anni, è incinta ma non sa se il padre del bambino è il marito oppure il soldato che l’ha violentata. Come lei, sono migliaia le donne di questa minoranza musulmana che, dopo essere state stuprate dai militari birmani, hanno partorito nei campi profughi in Bangladesh. E al trauma della violenza sessuale si aggiunge anche la vergogna e l’emarginazione.
A cura di Mirko Bellis
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Fatima, una ragazza Rohingya di 17 anni violentata da un soldato birmano, non sa chi sia il padre del figlio che porta in grembo (Unicef)
Fatima, una ragazza Rohingya di 17 anni violentata da un soldato birmano, non sa chi sia il padre del figlio che porta in grembo (Unicef)

Non so se il padre di mio figlio è mio marito o l’uomo che mi ha violentata. Lo saprò solo quando nascerà. Se è di mio marito, avrà i suoi lineamenti; se non è suo, invece, somiglierà al soldato che mi ha stuprata”. La storia di Fatima, una profuga Rohingya di diciassette anni e incinta all'ottavo mese, è sconvolgente. “Ho deciso di fuggire dopo che mio marito è stato ucciso e hanno bruciato i villaggi. Ma i soldati mi hanno catturata nella foresta e uno di loro mi ha violentata. Quando mi hanno rilasciata sono riuscita a raggiungere il Bangladesh”. Sono passati più di 10 mesi da quando, il 25 agosto del 2017, le forze di sicurezza del Myanmar (l’ex Birmania) hanno lanciato una vasta operazione militare contro la minoranza musulmana dei Rohingya. Una brutale repressione in cui le violenze sessuali sono state sistematiche e utilizzate come un’arma di guerra.

Dopo gli stupri, la vergogna e l’emarginazione

Fatima è solo una delle migliaia di donne Rohingya che hanno scoperto di essere incinte dopo gli stupri dei soldati birmani. E al trauma della violenza si è aggiunta anche l’emarginazione. Per loro, la nascita del figlio che portano in grembo rappresenta una vergogna e così cercano in tutti i modi di nascondere la gravidanza. “Sono in pochi qui nel campo a sapere che aspetto un bimbo – continua Fatima – sono preoccupata perché so che mi giudicheranno”. Un’altra donna, intervistata da Associated Press, ha raccontato di essere così impaurita che i vicini scoprissero la sua gravidanza, che ha patito in silenzio durante tutto il travaglio infilandosi una sciarpa in bocca per soffocare le sue grida.

In altri casi, le superstiti delle violenze sessuali hanno preferito ricorrere all'aborto. Ma c’è anche chi come ʽA’, un bambina di 13 anni rimasta incinta dopo lo stupro, non ne ha avuto il coraggio. Quando ha scoperto di aspettare un figlio, la madre l’ha portata in una clinica, ma lei si è talmente spaventata dalla descrizione dell’operazione che ha deciso di non farla. E’ rimasta rinchiusa per mesi nel suo alloggio nel sovraffollato campo profughi in Bangladesh cercando di appiattire la pancia avvolgendola con delle sciarpe. Gli unici momenti nei quali usciva era per andare in un bagno a pochi metri di distanza. Altre donne, temendo la reazione dei loro mariti, hanno cercato fino all'ultimo di nascondere le loro terribili esperienze. Come ʽM’ che ha partorito da sola e senza alcun aiuto. Il marito non ha mai guardato né baciato il bambino a cui lei stessa per diverso tempo non ha dato nemmeno un nome. Poi ha scelto il primo che le era venuto in mente. Da allora, il marito non ha quasi più alcun rapporto con lei e la colpevolizza per non essere riuscita a scappare dai soldati che l’hanno stuprata.

Secondo l'Unicef, nel periodo che va dall'inizio delle repressione a maggio di quest'anno, più di 16.000 bambini sono nati nei campi profughi e insediamenti informali a Cox's Bazar, in Bangladesh. Tuttavia, solo una minima parte dei parti si verificano nelle strutture sanitarie ed è difficile stimare il numero di nascite conseguenti allo stupro. “È impossibile conoscere il vero numero di bambini che sono nati o nasceranno a causa della violenza sessuale”, ha dichiarato Edouard Beigbeder, rappresentante Unicef in Bangladesh. “Ma è fondamentale che ogni madre o donna incinta e ogni nuovo nato ricevano tutto l'aiuto e il sostegno di cui hanno bisogno”.

Una violenza pianificata e sistematica

“L'esplosione di violenza, tra cui omicidi, stupri, torture, incendi e fame forzata, perpetrata dalle forze di sicurezza del Myanmar nei villaggi dello Stato settentrionale del Rakhine – ha denunciato Amnesty Internationalnon è stata l'azione di qualche reparto di soldati. Esiste un’enorme quantità di prove che era parte di un attacco sistematico e altamente pianificato alla popolazione Rohingya”.

A novembre del 2017, Pramila Patten, il rappresentante speciale dell'Onu sulla violenza sessuale nei conflitti, ha visitato i campi dei rifugiati Rohingya in Bangladesh dove ha ascoltato i racconti di donne e ragazze vittime di violenze e abusi sessuali di ogni genere. Nel suo rapporto, Patten sottolinea come gli stupri sistematici siano stati compiuti dalle forze di sicurezza birmane come un’arma di guerra nel tentativo di estinguere l'identità etnica dei Rohingya. Secondo i dati delle Nazioni Unite, 2756 sopravvissute a violenze sessuali hanno ricevuto aiuto in Bangladesh, ma quasi la metà delle aree di insediamento dei rifugiati è privo di assistenza e servizi sanitari di base per le vittime di stupro. “Oggi in Bangladesh ho incontrato donne e ragazze Rohingya che hanno sofferto terribili violenze sessuali in Myanmar, alcune ora madri di bambini nati dallo stupro. Non devono essere dimenticate. Il mondo deve conoscere la loro storia. Dobbiamo mostrare loro solidarietà”, ha scritto il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, dopo una recente visita ai campi rifugiati Rohingya.

Per molti dei neonati, nei cui occhi le madri vedono lo sguardo del loro stupratore, l’unico destino sarà l’adozione: un modo per liberarsi per sempre del ricordo delle orribili violenze subite. Ma c’è anche un filo di speranza, e sono le giovani donne come Fatima che credono che il loro bimbo sia comunque degno di ricevere amore.  È il mio bambino, come posso sbarazzarmene? Se Allah lo farà nascere sano e salvo, farò di tutto per crescerlo in modo corretto”. Anche ʽM’ non vuole dare in adozione il piccolo, perché, conclude: “Dopotutto, è solo un bambino e non ha alcuna colpa”.

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