Il destino della “primavera araba”: rivoluzione mancata o reale cambiamento?
In questi mesi abbiamo tutti guardato con grande attenzione a quello che stava accadendo nel mondo arabo. I grandi movimenti di rivolta che si sono susseguiti, dalla Tunisia all'Egitto, dalla Libia alla Siria, hanno destato in noi occidentali un sentimento di grande vicinanza nei confronti di un mondo che troppo spesso abbiamo considerato come immutabile. I movimenti che in quei Paesi si sono sviluppati, tra l'altro con modalità organizzative e di comunicazione radicalmente nuove (il ruolo giocato dai social-media è stato determinante), hanno posto al centro della loro protesta e della loro pratica politica la volontà di intraprendere un deciso percorso verso la democrazia.
La critica che quei movimenti popolari hanno saputo esercitare nei confronti di regimi autoritari che per anni hanno limitato le libertà personali, ridotto la popolazione alla fame ed alimentato un sistema di malaffare e di corruzione, ha segnato un punto di svolta nei rapporti sociali e politici di tutto il mondo arabo: per la prima volta quei Paesi hanno visto sorgere il protagonismo di una massa critica, consapevole della propria forza e delle proprie possibilità, che con decisione rivendicava l'accesso alla sfera della rappresentanza politica. Come nelle proteste che l'Occidente ha conosciuto negli anni '60 e '70, anche qui il tema dei diritti sociali e civili si è rivelato dirompente sul piano della stabilità politica. Il sentimento di speranza nella concreta possibilità di un cambiamento ha pervaso come un filo rosso tutta la stagione delle rivolte nel mondo arabo.
Quale futuro per la Primavera araba?
A distanza di qualche tempo però, con le proteste che ancora continuano in alcuni Paesi ed a seguito della deposizione di leader come Mubarak, Ben Ali e della sanguinosa fine del colonnello Gheddafi, si impone una domanda: qual'è oggi la reale situazione del mondo arabo?
Per rispondere a questa domanda possiamo riferirci a quanto in questi giorni sta accadendo in Egitto. La situazione egiziana assume, a nostro avviso, un valore paradigmatico. Gli scontri che si sono registrati a piazza Tahir sono l'esempio visibile di come sia lungo e tortuoso il cammino che porta alla democrazia e di come vecchi poteri non si arrendono all'idea di dover accettare il cambiamento.
La transizione che avrebbe dovuto portare il Paese a libere elezioni dopo la caduta di Mubarak non è stata certamente quella che la cosiddetta "gioventù della rivoluzione" aveva sognato. Il potere è passato nelle mani del vecchio maresciallo Mohamed Hussein, in passato molto vicino a Mubarak, espressione di una oligarchia militare che non ha alcun interesse a determinare una svolta democratica per l'Egitto. Quello che doveva essere soltanto un "governo di reggenza" si è trasformato nell'ennesimo tentativo di mantenere il potere in maniera definitiva. In sostanza un regime spazzato via dalla protesta popolare cerca di riorganizzarsi con un nuovo nome ed una nuova forma. Niente svolte, solo un passaggio di consegne. Anche qui il rischio di trovarci a fare i conti con l'ennesima "rivoluzione mancata" è alto. Questo rischio però è stato ben individuato dagli Egiziani, ed è questo il motivo scatenante le violente proteste di piazza Tahrir. La piazza occupata al grido di "No al potere dei militari, sì al potere dei civili", rappresenta la volontà di non mollare da parte del popolo egiziano. La dura reazione da parte dei militari lascia intendere che quel blocco di potere non intende farsi da parte. Ad ogni modo la notizia che il Governo egiziano ha deciso di ritirare le truppe da piazza Tahrir lascia ben sperare.
Un altro elemento de quale va tenuto conto è quello dell'estrema eterogeneità del movimento di protesta di piazza Tahrir. Oltre ai manifestanti che chiedono ai vertici militari di lasciare il campo ad un governo democratico eletto dal popolo, vi è anche una folta frangia estremista di stampo islamico che sicuramente non immagina una via d'uscita democratica dalla crisi egiziana. L'intenzione di sostituire al regime di Mubarak un regime teocratico altrettanto autoritario è purtroppo un'ipotesi concreta. Se ciò dovesse verificarsi si tratterebbe di un vero e proprio ribaltamento di quei principi che hanno sostenuto e generato il movimento di rivolta egiziano.
Il modo in cui si risolverà la crisi egiziana avrà forti ripercussioni su tutta l'area. Se il movimento civile sarà in grado da un lato di scacciare gli epigoni del passato regime e, dall'altro, di non cedere alle pressioni degli estremisti islamici, questo potrebbe rappresentare davvero un punto di svolta per un maturo compimento di quella spinta di cambiamento che abbiamo definito "primavera araba".
Questi sono i nodi politici da sciogliere per l'Egitto come per gli altri paesi del mondo arabo interessati da movimenti di rivolta. Impedire i colpi di coda e la riorganizzazione delle strutture di potere preesistenti e, allo stesso tempo, ostacolare la deriva fondamentalista. Il futuro della democrazia nel mondo arabo è tutto qui.